“Il Tempo è il vero protagonista di Sette note in nero, ma è stato anche l’artefice del suo insuccesso nel 1977 e della sua riscoperta negli anni ’90. Esso ha recuperato il film al limite dell’oblio proprio come, all’interno della pellicola stessa, ha recuperato Virginia al limite del trapasso (tra l’altro servendosi del suo strumento per antonomasia: l’orologio!)”.

In queste frasi potrebbe riassumersi il senso del lavoro che Giovanni Modica ha condotto sul troppo a lungo dimenticato cult di Lucio Fulci Sette note in nero. Film penalizzato perché troppo avanti con i tempi per i gusti della fine degli anni ’70 e solo da poco riscoperto grazie agli omaggi di Quentin Tarantino.

Al giorno d’oggi i gialli paranormali, soprattutto di matrice non americana, sono molto amati anche dal largo pubblico (vedi Shyamalan, Amenabar o Nakata), ma questo non avveniva all’epoca in cui uscì il film di Fulci, il cui contesto è stato sapientemente rispolverato da Modica a partire dal ‘giallo d’autore’ alla Comencini a quello ‘umoristico’ di Pradeaux e Cavara, passando, ovviamente, dal Profondo Rosso del Dario nazionale, per arrivare alla “virata in senso orrorifico e notturno che il genere subì nei primi anni ‘80”.

Sempre riallacciandosi ad Argento, nonché al celebre La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, l’autore procede con un excursus sulla presenza massiccia della pittura nei film italiani di questo periodo (ricordiamo che Sette note in nero ruota intorno a una tela rubata); ma c’è tempo anche per una digressione sulle differenze tra Fulci e Argento, che accontenterà sicuramente chi ha sempre mal sopportato le accuse al primo di aver seguito le orme del secondo.

L’autore passa poi ad accostare la pellicola ai suspense-movie odierni, gialli, thriller e fantasy, sottolineando in Sette note in nero sia la presenza di elementi gialli (l’intreccio) che fantasy (la chiaroveggenza), e agli altri film dello stesso Fulci, con un simpatico parallelo ricco di curiosità tecniche fra la caduta dalla rupe del film preso in esame e quello di Non si sevizia un paperino.

Grande spazio viene dato alle musiche - e, del resto, sin dal titolo stesso il film sottolinea i rapporti fra le note e la trama - di Fabio Frizzi, Franco Bixio e Vince Tempera, con un’analisi approfondita della fusione fra colonna sonora e immagini.

Arrivando verso la parte centrale del saggio, si comincia a parlare delle soluzioni registiche e delle trovate stilistiche: autocitazioni, uso mosso della telecamera, gli zoom, le ‘soluzioni ipnotiche’ dei bianchi e i neri totali, senza però mai scadere in tecnicismi letterari che potrebbero spiazzare il lettore non avvezzo a studi cinematografici.

Passiamo poi alle ‘ascendenze letterarie’, da Poe al romanzo di Vieri Razzini Terapia mortale, con raffronti e curiosità molto approfonditi.

Si torna poi al cinema tout court e si vanno ad analizzare altri film successivi che hanno qualche debito - pur se non ufficialmente riconosciuto - nei confronti di Sette note in nero, da Minority Report di Steven Spielberg a Gli occhi di Laura Mars di Irvin Kershner. Probabilmente l’autore vuole cancellare precedenti polemiche, assolvendo per insufficienza di prove Le verità nascoste di Robert Zemeckis, ma finisce per parlare di film meno vicini a quelli di Fulci come Femme fatale di Brian de Palma o Déjà-vu di Tony Scott; non dobbiamo comunque dimenticare che il sottotitolo del libro si riferisce a tutto quel cinema che, in un modo o nell’altro, si è occupato della precognizione e dei giochi fra passato e futuro. Scorrono così velocemente anche le pagine sui cosiddetti ‘imputati minori’, fra cui The Gift, Premonition, L’esercito delle 12 scimmie o Frequency, sempre però senza tralasciare eventuali raffronti col film protagonista del saggio.

L’autore non manca di omaggiare con alcuni paragrafi gli interpreti, anche minori, della pellicola, compresa la stessa Siena, e prosegue con il racconto delle complicazioni incorse durante la pre-produzione.

Fra le parti più interessanti, però, spiccano senza ombra di dubbio le interviste inedite a Ernesto Gastaldi (autore del primo soggetto), Dardano Sacchetti (sceneggiatore) e soprattutto all’autore della fotografia Sergio Salvati: una lunghissima intervista di oltre 24 pagine che svela molti segreti inerenti la produzione del film e Fulci stesso.

Segue un’interessante analisi del remake (non ufficialmente riconosciuto) indiano del 1991: 100 Days di Parhto Gosh. L’autore ne delinea la trama, dimostrandoci che qui si va ben oltre il citazionismo e analizza i principali rapporti di somiglianza fra i personaggi e le scene delle due pellicole.

Non mancano infine alcuni paragrafi sulla ‘factory’ fulciana, curiosità e rassegna stampa.

In definitiva si tratta di un buon lavoro, costruito in modo puntuale. Il periodare è ricercato e suggestivo, ma al tempo stesso scorrevole e accessibile anche ai non addetti ai lavori. Probabilmente la pecca risiede proprio nel tono colloquiale di alcuni assaggi, con cui si finisce col presentare talvolta congetture non avvallate da fonti dirette.

Sicuramente un testo che accontenterà di più i fan del Fulci ‘giallista’, piuttosto che quelli del Fulci ‘maestro del gore’, ma che non potrà certo mancare nella biblioteca di ogni appassionato che si rispetti, e (perché no?), di chi non è ancora riuscito, per un motivo o per un altro, ad avvicinarsi al Maestro.