E' il 22 dicembre 1952 a Davenport nell'Iowa quando, nel bel mezzo di una tormenta, avviene un triplice omicidio e la sparizione di due giovani converse in un pensionato gestito da monache. Cinquant'anni dopo una giovane donna di origine italiana, viene rilasciata da una clinica psichiatrica di New York, nella quale era stata reclusa per quindici anni a seguito del suicidio del marito. Decisa a rifarsi una vita, si reca a Davenport e affitta la Snakes Hall con l'intento di tramutarla in un ristorante italiano. Non è ancora al corrente delle storie che si raccontano nella piccola comunità riguardo all'edificio quando le prime voci cominciano a farsi sentire nella sua testa...

Non è un periodo particolarmente fruttuoso per il cinema italiano di genere. Eppure è un sollievo poter constatare che c'è ancora qualcuno che sa girare film come solo in Italia sapevamo fare.

La quintessenza del Nascondiglio di Pupi Avati è contenuta già nella schermata del titolo: due parole scritte in uno spartano stampatello maiuscolo bianco su sfondo nero, che mai come oggi si distinguono come un marchio nel marasma di caratteri quanto più possibile stravaganti dei vari Saw e Hostel. Il richiamo al cinema Horror anni '70 è ben palpabile fin da prima che il film cominci, con i titoli di testa avvolti da un inquietante sottofondo di violini. Si parte con un prologo ambientato, come detto, negli anni '50, nella più calssica delle notti buie tempestose, con la luce che va e viene tra gli alti soffitti gotici del pensionato. Dataci la certezza che qualcosa di sconvolgente sia avvenuto tra quelle mura veniamo scaraventati ai giorni nostri, nel 2007, e seguiamo le vicende di un personaggio tipico dei lidi nostrani di celluloide. Laura Morante si cala perfettamente in una donna sola, con alle spalle un passato segnato dalla malattia mentale, italiana in terra straniera e accolta freddamente da una comunità che la vede fin da subito come un'intrusa. Nonostante Avati abbia abbandonato le campagne romagnole, il senso di provincialità che caratterizza la sua filmografia di genere satura l'atmosfera rendendo il senso di solitudine ancora più intenso.

Arriviamo presso l'abitazione. I serpenti sull'uscio ci guardano con le fauci spalancate. La casa è sfitta da anni, a disposizione per il nostro ristorante italiano avremo solo il piano terra, mentre i piani superiori sono di proprietà del comune, che li sfrutta come magazzino. L'affitto è estremamente basso. La prendiamo.

Comincia il nostro progetto e con lui le prime notti da soli in quella casa. Col proseguire dei lavori e l'arrivo dei primi mobili le voci cominciano a farsi sentire: in paese, nella casa e nella nostra testa. Il mistero si fa sempre più fitto e sempre più inquietante. Bisogna andarsene...

Tutto questo è incorniciato dalla splendida colonna sonora, magistralmente orchestrata da un veterano come Riz Ortolani, dalla tensione sempre mantenuta sul filo del rasoio e da inquadrature che raggiungono picchi di eccellenza.

Il cast al completo da il meglio: gli attori riescono in ogni occasione a esprimere al massimo la psicologia del proprio personaggio e, insieme, l'atteggiamento della comunità, gelosa delle proprie vicende private.

Non ci sono punti morti ne incrinature nella solida sceneggiatura, che passo passo ci da un tassello in più per ricostruire un puzzle non troppo complesso.

Infine, dopo più di un ora e mezza di suspence, si giunge al finale, che richiama inevitabilmente La casa dalle finestre che ridono e che probabilmente i più si aspettavano. Ma poco in porta, perchè tutta l'emozione e l'esperienza che hanno costruito questo ottimo titolo non sono state dimenticate.

Siamo chiari: il film di Avati non ha la pretesa di essere complesso, originale o di essere basato su un'idea eccezionale. E' solo un film dannatamente ben fatto, ed è probabilmente questo che oggi ci vuole per il nostro cinema.