Già disponibile in formato digitale dallo scorso giugno, The Lord Of Steel esce adesso anche in CD e, a detta della band, con una produzione completamente rinnovata.

In effetti il sound, rispetto alla “Hammer edition”, è più curato e pulito, ma sembra che non sia stato fatto granché per dare più spessore alla produzione, anzi il suono potrebbe addirittura risultare meno caldo e più piatto.

Già nell EP Thunder in the sky si era avuta un’anticipazione di quella che sarebbe stata la nuova strada intrapresa dai quattro dopo il sinfonico Gods Of War, ma la produzione adesso è davvero scarna ed essenziale, quasi da demo. Nonostante questo abbia suscitato le perplessità di molti, le canzoni hanno guadagnato in freschezza, un aggettivo che dopo Kings Of Metal è stato impossibile da usare. Oltretutto, il sound  ricorda i primi Manowar, soprattutto quelli di Battle Hymns e Into Glory Ride. E’ soprattutto la prima parte del disco a essere la più brillante, ma da circa metà in poi riemergono seppure in modo più contenuto rispetto agli ultimi anni anche i cliché negativi della band, tra tutti stanchezza e pedanteria.

The Lord Of Steel si apre con la title track, e il suo fresco riff iniziale strizza l’occhio alla NWOBHM, sia per struttura che per sound. Un pezzo veloce, diretto e suonato col cuore così come Manowarriors, introdotto dall’urlo di un Eric Adams in gran forma (ma come era successo anche nel precedente Thunder in the sky tende a cantare più basso e gutturale). Riff veloce, caldo, convincente e di cuore, che ricorda i Manowar più stradaioli dei primi lavori e infarcito di quelle tematiche tanto care al gruppo e molto ben sintetizzate nel coro del ritornello (We fight for Metal, our fight is real) fanno di questo pezzo quasi un hit single.

Il ritmo cala un po’ con Born in a grave, pezzo cadenzato e pulsante che però si rivela presto un po’ noioso e con un ritornello che sa troppo di “già sentito”. L’ariosa Righteous Glory evoca le atmosfere di Secret of Steel, anche se l’arpeggio iniziale può ricordare Foolin' dei Def Leppard e alcune soluzioni melodiche hanno reminiscenze malmsteeniane. L’amalgama funziona visto che è uno dei brani più convincenti non solo di The Lord Of Steel ma degli ultimi dieci anni della loro carriera: Righteous Glory è generosa e ispirata, e ha le potenzialità per diventare un classico della band.

Ancora un riff semplice, una melodia immediata e cori epici con la priestiana Touch the sky: potente ma banale, scorre via senza restare impressa. La sulfurea Black List si apre invece con una intro affidata alla potente batteria del rientrato Donnie Hamzik (aveva già suonato in Battle Hymns MMXI). La melodia e il basso distorto di Joey De Maio (presente con lo stesso tipo di distorsione anche in altri brani) evocano atmosfere settantiane vicine ai Black Sabbath. Questo brano che all’inizio sembra promettere bene per compattezza e potenza (i primi due minuti e mezzo sono strumentali e il brano poteva anche finire lì), è invece il primo di quelli a venire che si perde nelle spirali del pedante e del prolisso. E non si deve aspettare molto per reimbattersi nella quintessenza delle qualità negative alle quali la band ci ha abituati così bene negli ultimi lavori: dopo Expendable, un pezzo tanto grintoso quanto noioso, ecco la brutta El Gringo: retorica, prolissa, stanca, senza ispirazione e adesso persino quasi due minuti più lunga rispetto alla precedente versione. La classica e accattivante cavalcata chitarristica non basta davvero a salvare il brano del disco che più evoca i fantasmi dei Manowar anni 2000 e che quindi si vorrebbe dimenticare al più presto.

Nell’assolo della successiva Annihilation c’è una bella sovrapposizione tra chitarra e basso e sono sempre gli spunti chitarristici e gli assoli di Karl Logan l'aspetto migliore di Hail, Kill and Die, altro inno che ogni true Manowar fan vorrà cantare sotto il palco. Ma entrambi i brani sono troppo freddi per riuscire a coinvolgere.

La “hammer edition” finiva qui e lasciava un po’ di amaro in bocca dopo il promettente avvio e una prima parte del disco che era riuscita davvero a spazzare via ben quattro lustri di stanchezza.

A chiudere invece la versione CD è l’inedita The Kingdom of Steel, che si dipana tra gli arpeggi delicati della strofa e un ritornello epico e drammatico, con cori che potrebbero emozionare anche chi ascoltando i Manowar emozioni non ne ha più provate da Master Of The Wind in poi. Probabilmente anche il loro pezzo più ispirato degli ultimi vent’anni e anche quello con la migliore produzione dell’intero disco (e nel finale si ha anche l’unico spunto sinfonico dell’album).

The Lord Of Steel non passerà alla storia, ma ha il pregio di essere il primo disco dopo tanti anni a dirci che i Manowar sanno ancora scrivere (belle) canzoni e potrebbe in parte riuscire a far riappacificare i fan soprattutto storici della band: vale la pena ascoltarlo almeno una volta. Un consiglio: se si dovessero introdurre i Manowar degli anni ‘90 e 2000 a un nuovo adepto, lo si faccia con questo CD, poi si passi direttamente a Into Glory Ride.