Un personaggio reale, probabilmente vissuto tra fine quindicesimo e inizio sedicesimo secolo le cui imprese fecero fiorire la leggenda. A partire dal 1570, diverse le relazioni, più o meno romanzate, sul suo conto, il suo patto col demonio e la sua triste fine. Johann Faust aspirava a tutto conoscere e a molto potere. Divorato dall'insoddisfazione dalla vanità che la vita offre, la sua storia trovò nello sguardo goethiano l'espressione migliore.

Una delle più alte opere di poesia che siano state scritte, uno dei ritratti migliori e più significativi dell'animo dell'uomo occidentale. Un amalgama di elementi non sempre coerenti: il dramma che sgorga da una brama insaziabile di sapere e un ritorno alle passioni più profonde, raccontato in uno stile assai più leggero, che a tratti fa respirare un'aria da commedia. Poi il ritrovo della pace nella visione di un'operosità ordinata, oltre l'attivismo cieco, frenetico e disperso che svuota l'animo. Il Faust muore e si salva, il patto demoniaco scade, in Goethe il suo travaglio si conclude con l'aspirazione a una composta classicità.

Ma ecco il poema epico nelle mani di Aleksandr Sokurov, nuovamente interpretato. Dopo Moloch, 1999, dedicato alla vita privata di Hitler, Taurus, 2001, spaccato sugli ultimi giorni di Lenin e Il sole, 2005, cronaca della capitolazione nipponica incarnata da Hiroito, il regista russo chiude con Faust la sua tetralogia sul potere. L'ultima lucida denuncia di una stortura. Una parodia tinta di nero che descrive la condizione grottesca dell'uomo che prevarica i suoi simili cercando di imporre una legge, scimmiottando penosamente il divino.

Dopo quasi tre secoli, incastrata in uno schermo, l'opera è riproposta al pubblico con accenti nuovi. Un'apertura vertiginosa, un breve istante per guardarsi dentro e chiedersi se tutto è già iniziato, e poi in picchiata fino a sbattere contro i genitali di un cadavere verdognolo e putrefatto. Sembra di sentire l'olezzo della stanza. Il dottor Faust, medico, scienziato e filosofo, scava, squarta e sbudella, senza sapere cosa cercare. I colori della pellicola sono cupi, l'inquadratura costringe e deforma. Il tramonto dell'Occidente è in scena.

Il movimento continuo delle riprese insegue il peregrinare, l’errare, il vagare di un Io violentato, e svuotato, schiacciato dal suo passato, ormai totalmente schiavo delle sue passioni. Fame e pulsioni spingono Faust a strisciare tra vie e cunicoli, districandosi tra gli altri uomini, in cerca di risposte, in assenza di domande precise. Non è più solo una questione di hybris. Ora la ragione che cercava di mettere ordine, di uscire dalle tenebre e dal vagabondare, è in crisi e lentamente cede il passo alla follia. L'indeterminazione rosicchia terreno all'intelligenza. I contrasti vanno via via mescolandosi, sempre più ferocemente: il candore delle fanciulle che si bagnano nell'acqua e il corpo osceno del tentatore che fa versi ed emette flatulenze. Il bacio più bello, immaginato, mai stato dato, e il sesso consumato che diviene stretta mortale a onta di un desiderio che è ridotto a mera necessità di possesso.

Leone d’oro a Venezia, autentica visione di mondo, tra spazi angusti e luoghi minuscoli, il Faust di Sokurov si cala nelle viscere del presente pungendoci sul vivo, evidenziando la nostra profonda difficoltà nel distinguere sempre e perfettamente i legami della realtà, e addirittura l'incapacità di collegare i legami che costruiscono la nostra storia. Un film che racconta in modo febbrile lo scandalo della ragione che arranca, al cui interno il germe della follia spinge e cerca di costruirsi un territorio proprio. Un poema che ritrae la lotta di ogni uomo con se stesso per diventare se stesso, dell’uomo con un altro uomo, dei popoli con altri popoli, fino all'abbandono e l'oblio. Il dramma di un'illusione. La narrazione di un cammino smarrito, in balia di percorsi che la ragione non dovrebbe e non potrebbe secondo regola accettare. Come oggi, quando il delirio rimane un tentativo di variazione di percorso.