Qualcuno mi afferrò da dietro, per il collo della tuta, trascinandomi via. Volevo con tutto il cuore che fosse un “via” da tutta quella merda. Mi sentivo ancora vivo dentro un corpo morto ed era come se vedessi quegli istanti dall’oblò di un’altra realtà. Nella mia visuale entrò Amos che buttò a terra il fucile a pompa e prese a sparare raffiche di mitra.

Sempre là, nelle interiora invisibili del prefabbricato.

Seguirono secondi di silenzio, pesanti come starsene soli in una camera mortuaria.

Quando i custodi se ne vanno chiudendoti dentro e spegnendo le luci.

Poi quel rumore.

Lo stesso, di sempre.

Il tetto dello spogliatoio esplose schizzando per aria pezzi di cemento e intonaco. In alto, il cielo si smerdò di nero come una spruzzata d’aerografo sulle nubi di piombo.

La macchia prese a sbattere le ali membranose. Rumore come di lenzuola gonfiate dal vento, amplificato con diffusori da stadio.

Mi cercai le orecchie con i palmi, senza trovarle. Cercai le mie mani, senza trovarle.

Rovistando in me trovai soltanto budella, strizzate come uno straccio intriso.