Stavamo minando il perimetro esterno di uno spogliatoio abbandonato, nel bel mezzo di quello che una volta era stato un parco pubblico: una chierica di verde malconcio circondata da casermoni di periferia. Sparite le grida dei bambini che giocavano a pallone, il suono dei campanelli delle bici. Vietato introdurre i cani senza guinzaglio. Vietato introdurre bestie che possano sbranare bambini che giocano o che girano in bici.

Bestie.

Adesso, erano spariti anche i cartelli di divieto. Da quelle parti, era un deserto. Senz’oasi: solo miraggi d’acqua putrida. E in quei momenti avevi la stessa voglia di giocare di quando attendevi una persona cara fuori dal reparto rianimazione.

Gli altri membri della squadra stavano appostati sul troncone di pista ciclabile masticato dai mortai; erano pronti a fornire una copertura con le armi pesanti, qualora si fosse captato quello strano rumore: il solito, lo stesso da molte settimane a questa parte; come di lenzuola gonfiate dal vento, amplificato con diffusori da stadio.

Non appena ti arrivava alle orecchie, ti strizzava le budella come uno straccio intriso.

Lavoravamo a mollo in un silenzio odioso e nel sudore freddo, tra ulivi arsi e facciate annerite, con centinaia di orbite vuote a fissarci: finestre di case svuotate del calore domestico. Osservando quelle abitazioni morte, pensavo a quante persone ci avessero pregato dentro. Se avessero pregato abbastanza. Per loro stesse. Per noi. Se qualche sopravvissuto avesse ancora la forza di farlo, nascosto fra i calcinacci di una quotidianità cacciata via a pedate.

Per sempre.

Io, Amos e Raf eravamo scesi giù dalla collinetta a passo di leopardo, fino alla casupola dello spogliatoio. Il preciso ordine del capitano Jethro era stato quello di fare al prefabbricato una bella corona di SB-33, mine al plastico antiuomo.

Antiuomo.

Mi venne da sorridere. Antiuomo. Forse era il caso che qualcuno inventasse un nome più appropriato. In quella guerra, c’era ben poco di umano... Mi tornarono in mente le raccomandazioni del nostro capitano prima che partissimo: non entrate per nessun motivo all’interno dell’edificio. Non dovete buttarci neanche un’occhiata, intesi? Rammentai i suoi occhi su di me e rabbrividii, sgonfiando la mia voglia di sorridere. Cosa diamine ci fosse là dentro, a nessuno di noi premeva di saperlo. Volevamo soltanto tornarcene al campo il prima possibile.

Meglio se era il campo di un’altra vita.

Amos e Raf avevano appena terminato di posizionare gli esplosivi. Io mi stavo affrettando a completare la parte di lavoro che mi spettava, questione di minuti.

Sistemando le ultime due mine, mi trovai davanti all’unica apertura dello spogliatoio, con la porta scardinata, finita chissà dove: a pochi metri da un ritaglio di buio realizzato col trincetto; drappo a lutto su quella parete di realtà.

Cercai di concentrarmi sul lavoro e non pensare a cosa ci fosse al di là dell’apertura. Questione di minuti. Appena finito, sarei tornato al campo, avrei riposato e mangiato come un porco. Pancetta e fagioli. Ripetei a me stesso che l’unico motivo per cui mi trovavo lì era quello di minare il perimetro di una casupola fatiscente e svignarmela. Quelli erano gli ordini. Là, dentro, non c’è nulla per cui valga la pena sbirciare, mi ripetevo come un mantra, cercando di tranquillizzarmi e di mantenere fisso lo sguardo sulle mine.

Non dovete buttarci neanche un’occhiata, intesi?

Non so come spiegarlo, ma in quel momento sentivo come se la porta nera mi guardasse. Come se mi esortasse a voltarmi verso di essa.

Voltati.

Perdinci, mi stava attirando a sé come l’entrata di un bordello dopo un anno d’astinenza. Solo un istante, non di più.

Uno soltanto.

Infine cedetti. Il mio sguardo indugiò in quella bocca fatta di buio.

Niente.

Solo il nero. Lingua gelata giù per la schiena. Vedi? Nulla per cui farsela nei pantaloni. Mi scappò una risata nervosa, quasi un colpo di tosse, per espettorare la tensione. Forse il capitano aveva scherzato. Sì. Mica ci avrebbe mandati laggiù se sapeva che la zona non era pulita! Ci voleva bene come se fossimo tutti suoi figli; scherzava molto con noi, diceva che faceva bene alla nostra anima. Ridere ci aiutava a tirare avanti, in quella guerra senza limiti di tempo, spazio e orrore.