Sara ritorna alla villa dei nonni defunti in vista di una ristrutturazione, ma un misterioso medaglione, venuto alla luce durante gli scavi assieme a un teschio, comincia a mietere vittime. La donna, con l’aiuto di alcuni pittoreschi abitanti del Borgo, dovrà scoprire non solo cosa scatena il monile maledetto, ma anche quale sia il legame tra i delitti e le sue strane visioni notturne.

Questa, a grandi linee, la trama di Dove il silenzio muore (Edizioni Cento Autori), opera ad ampio respiro della scrittrice e giornalista napoletana Simonetta Santamaria, nota ai frequentatori di Horror Magazine per aver vinto l’XI edizione del Premio Lovecraft col racconto Quel giorno sul Vesuvio.

Ciao Simonetta e benvenuta! Anzi, bentornata! Che effetto fa, a una vincitrice del Premio Lovecraft, riapparire sulle pagine di Horror Magazine dopo la pubblicazione di un romanzo?

Un’emozione grandissima! In effetti mi ritengo un po’ figlia del Lovecraft. Quel premio è stato il primo vero successo del mio percorso horror e l’ho sempre portato con me con orgoglio, in ogni presentazione, in ogni intervista. E sono stata ben ripagata, visto che, tra l’altro, la casa editrice che ha pubblicato il mio romanzo, la Cento Autori, è la stessa che si offrì di pubblicare il racconto vincitore.

Nel tuo romanzo ritornano i paesaggi suggestivi di “Quel giorno sul Vesuvio”. Fa sempre piacere agli appassionati di Horror italiani constatare che anche il nostro Paese può suscitare fascinazioni di questo tipo. Puoi rivelarci qualche segreto in merito alle tue ispirazioni rispetto a queste tue scelte? Quando nascono, come e soprattutto dove...

Ho sempre condannato l’icona esterofila dell’horror. Ancora oggi, quando mi capita di leggere l’inedito di qualche esordiente, vado in bestia, perché poi si finisce col leggere chiaramente che lo scrittore non sa niente di quei luoghi, non ci è mai stato, non li ha vissuti, annusati, con la conseguente incapacità di trasmettere sensazioni. Colpa della subcultura del bestseller americano. In alcuni settori, come l’horror, la nostra grande editoria preferisce puntare ancora su nomi sicuri, non è propositiva, purtroppo. Io faccio la mia battaglia pro-Italia, invece. Ogni angolo del nostro paese può essere fonte d’ispirazione, basta a volte il nome di una strada, una storia popolare di cui noi siamo ricchi, uno scorcio visto in una certa luce. Io racconto Napoli, la mia città; cerco di esportarne un lato diverso, non il solito stereotipo che ci vede costantemente gemellati con la pizza e la camorra. Non ne voglio fare un’icona della denuncia, della facile dietrologia, per quello bastano i Saviano di turno. Solo lascio che gli occhi e le orecchie comunichino col cuore: quando sento quel bum-bum in petto, il battito che accelera, è fatta. E sono onorata che il Corriere del Mezzogiorno mi abbia definita “lo Stephen King napoletano.”

Dici di te: "Scrivo horror per dimostrare che anche le donne lo sanno fare. Da piccola, mentre le altre bambine sognavano di fare le ballerine, io volevo fare il meccanico. Mentre loro a carnevale s'infiocchettavano da principesse e fatine, io mi vestivo da cow-boy e sognavo di pilotare un elicottero". E anche: "Il mio horror è una sfida agli uomini". Come riesci a conciliare questa tua faccia trasgressiva e femminista con l'essere madre (di due maschi!) e moglie? E' la scrittura stessa che, in forma circolare, ti ripaga e ti fa 'risorgere' bambina? Il tuo processo di scrittura è come un Ouroboros?

Dev’essere una sorta di androginia mentale; come dice mio marito, ho “l’anima di un camionista imprigionata in un corpo di donna.” Sono stata sempre attratta da quello che facevano i maschi, e imitarli era anche un modo per distinguermi dai miei simili tutte tette e shopping a cui non mi accomunavo e non mi accomuno. Mi piace sentirmi diversa: guido la motocicletta, porto sempre un teschio con me, che sia un anello, una cintura o una spilla, in palestra faccio attrezzistica con gli uomini mentre le altre fanno aerobica e ho praticato il judo. In famiglia sono l’unica donna, pure il gatto è maschio. Ma non sono femminista, almeno non nel senso dissennato del termine. Ho un sacco di amiche e vado d’accordo con tutti, quando una persona non è nelle mie corde lo avverto subito, basta una stretta di mano. E sono strafelice di avere due figli maschi con i quali ho un ottimo rapporto e che, a quanto dicono, sono fieri di questa mamma un po’ speciale. Come moglie, a volte mi sento un po’ in colpa perché non sono certo il tipo tutta casa e manicaretti, io detesto cucinare… Ma ho un marito comprensivo e poco pretenzioso, che rispetta i miei spazi quanto io i suoi; un altro non sarebbe sopravvissuto una settimana. La scrittura, sì, mi ripaga di tante cose ma non mi fa tornare bambina perché quella bambina io ce l’ho ancora dentro; mi lascio ancora emozionare da piccole cose, come quel brivido di piacere quando scrivo un pezzo che mi soddisfa. E quando quello che scrivo va bene allora è come una sorta di rigenerazione e rinascita. Già, un po’ come un Ouroboros.

Quanto ti somiglia Sara e quanto, invece, hai cercato di distaccartene nel processo di caratterizzazione del personaggio?

Credo che ogni personaggio porti dentro di sé un po’ di noi autori, distaccarsene completamente è impossibile. Ma dalla nostra radice si sviluppa poi un essere diverso, che va per la sua strada e vive la sua storia. Proprio come un figlio. Sara mi assomiglia perché è una donna forte e con uno spirito indipendente, come me avverte la latente mancanza di una madre morta nel momento migliore, quando sarebbe stato bello vivere un rapporto donna a donna. Ama gli animali e come me ha un cane e un gatto. Ed è una giornalista.

La storia che proponi ha un intreccio molto articolato. Alcuni personaggi muoiono uno dopo l’altro - non riveliamo ovviamente nulla! - senza che il lettore mai immagini quale sia la vittima successiva. E non ci sono serial killer! Come ti è venuta l’idea del medaglione e di ricollegare i misteri italici a quelli egizi?

L’unica cosa che sapevo era di voler creare una storia in cui passato e presente s’intrecciassero fino a creare un unico binario narrativo. Una sera, un mio amico mi parlò delle sette gnostiche, delle loro ideologie; io conoscevo già l’Ouroboros come figura circolare dell’infinito, avevo già fatto un’incursione negli dei dell’epoca egizia e così i tasselli si sono uniti.

“Dove il silenzio muore”. Titolo davvero evocativo, visto e considerato che, la villa intorno a cui ruota tutta la vicenda, è denominata “La Silenziosa”. Come l’hai scelto?

A proposito di luoghi nostrani, vedi: basta ascoltare. Di una villa con questo

nome e dalla fama sinistra me ne parlò un amico dei miei figli. Il titolo? A romanzo finito la casa editrice ne propose alcuni che in famiglia abbiamo limato partendo dall’idea che dentro ci dovesse essere la Morte come richiamo per il lettore. Ed ecco “Dove il silenzio muore.” Un titolo oscuro che ci porta in un luogo che ancora non conosciamo ma che potrebbe anche essere lì, dietro casa nostra.

All’inizio del libro citi il testo di una canzone del gruppo goth/prog metal di cui fanno parte i tuoi figli (n.d.a.: i Five Sided Room: www.myspace.com/fivesidedroom) e, all’interno della storia, ci mostri più volte la protagonista nell’atto di ascoltare CD (dagli Smash Mouth ai Dire Straits). Quanto, la musica, ti è d’ispirazione nello scrivere?

Tantissimo! Ascolto musica di vario genere a seconda di quello che devo scrivere, per entrare nell’atmosfera. Anche in questo i miei figli mi sono di supporto, suggerendo autori e brani che potrebbero essermi d’aiuto senza disturbare la concentrazione. E con loro ho imparato a comprendere e apprezzare il metal, quello di razza. Il metal è un po’ come l’horror, spesso è legato a stereotipi. In questo caso metal è uguale rumore, animaleschi growl e, peggio ancora, Satana e cazzate simili. Invece il metal è fatto di generi, ed è sempre sbagliato fare di tutta l’erba un fascio. Apprezzo il prog, il gothic, l’heavy, dagli Iron Maiden ai Dream Theater ai Manowar e, ovviamente, i Five Sided Room; la frase della loro “Ragnarok” mi pareva perfetta per il mio romanzo. Un doveroso tributo ai miei figli che, nonostante il metal, studiano musica classica da 11 anni.

Puoi fare un passo indietro e raccontarci com’è nata l’antologia “Donne in noir”?

Un progetto che ha visto la luce grazie a Il Foglio Letterario, una delle poche case editrici italiane con una collana horror e che non rifiutava i racconti. Nel lontano 2002 vinsi con loro il mio primo concorso e il racconto fu pubblicato in un’antologia che presentammo a Roma con nientemeno che Dario Argento. Ricordo che lui firmò la mia copia, poi mi mise una mano sulla spalla e disse “sei in gamba, continua così.” Magari l’avrà detto a tutti ma a me sembrò di aver ricevuto una sorta di imprimatur. Cominciai a scrivere racconti lasciandomi catturare dalle storie che sentivo qui e là, amici, riviste, telegiornali. E la maggior parte di queste riguardava noi donne. Non è per misandria, è solo che storicamente le donne sono state vittime per tanto, tanto tempo. E ancora oggi ingoiano, tacciono, mentono, e soffrono in silenzio. “Donne in noir” è il ritratto di undici donne che si prendono una rivincita, in un modo o nell’altro. In ognuna di loro ci si può trovare un pezzetto di ognuna di noi. È una discesa nel nostro lato oscuro.

Prima di salutarci, potresti darci qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?

Quello che so è che continuo a scrivere e che auguro lunga e prosperosa vita alla Cento Autori, una casa editrice che ha tutte le carte in regola per diventare il polo campano dell’editoria nazionale.

Al momento è in itinere la partecipazione ad alcune antologie, e sono a metà di un secondo romanzo sempre ambientato a Napoli in cui troverete ancora un gatto e un intenditore di metal. Ho deciso che questi due elementi ricorreranno, così magari divento “quella del gatto” o “quella del metal.” E, chissà, forse qualcuno dei personaggi potrebbe pure conoscere la storia de “La Silenziosa”. Chissà.

Un grosso in bocca al lupo a te e al tuo libro, Simonetta. E grazie per la disponibilità!

Grazie a te, Irene, e a Horror Magazine. Per essere ancora una volta al mio fianco in questa fantastica avventura. Per dare spazio a quelli che non vogliono cedere a più facili e commerciali canali letterari. Per aiutare l’horror a non essere più relegato come genere di nicchia e alla grande editoria ad aprire gli occhi; se dal nulla c’è riuscito un King, un Barker, una Rice, allora ci possiamo riuscire anche noi.

Simonetta Santamaria giornalista, vive e scrive a Napoli, dove gestisce l’agenzia di stampa Essedue Comunicazione. Ha vinto l’XI edizione del Premio Lovecraft col racconto Quel giorno sul Vesuvio (CentoAutori 2007), ha pubblicato l’inquietante raccolta al femminile Donne in Noir (Edizioni Il Foglio - 2005) e l'e-Book Black Millennium. Con il racconto horror Un cuore nuovo ha partecipato insieme ad altri giornalisti e scrittori napoletani al progetto “Il Giralibro 2006”. Suoi anche Irrefrenabile passione (San Gennoir - Kairòs 2006), Confessione di un apprendista di bottega (Partenope Pandemonium - Larcher 2007) e Necromundus, da un’idea di Giuseppe Cozzolino, pubblicato su M Rivista del Mistero (Alacran 2007). Il quotidiano La Repubblica l'ha definita una delle "signore della suspense in Naples" mentre per il Corriere del Mezzogiorno, il suo romanzo Dove il silenzio muore (CentoAutori) la consacra come "lo Stephen King napoletano".

E’ raggiungibile su Internet tramite www.simonettasantamaria.net e www.myspace.com/simonettasantamaria