Franco Butieri aveva oltrepassato la linea che separava il pensiero dall’azione quando Rizzi gli aveva mollato un pugno in faccia, sbraitando in una nuvoletta di saliva: «Devi pagare, sennò te tolgo gli occhi e li do in pasto ai gatti!»

La ferita lasciata sul labbro pulsava con spietata regolarità, scagliandogli nel cervello una pirotecnia di ricordi. La crisi, clienti che non pagavano e conti che non quadravano, i dipendenti senza stipendio, il fottuto spread, il magazzino della Terni Vernici che si riempiva di materiali, le notti insonni, la decisione di rivolgersi a Rizzi per riuscire a pagare i salari ed evitare la chiusura della piccola ditta che era stata la sua vita per trent’anni…

Si era fottuto da solo. Potere della disperazione. Tutti in paese sapevano che tipo di affari gestiva Rizzi. Gli interessi erano lievitati e i continui proclami dei politici sull’imminente uscita dell’Italia dal tracollo finanziario che aveva squassato le fondamenta economiche del mondo rimanevano ciò che erano: proclami.

Fluttuò sino al piccolo ufficio come un fantasma, tamponandosi la bocca con un fazzoletto. Mani tremanti e maledizioni contro la vita, le tasse, i politici. Aveva perso tutto. A quasi sessant’anni, che futuro poteva avere?

Si lasciò crollare sulla sedia dietro la scrivania e afferrò le chiavi della macchina. Poi digitò il codice numerico sul tastierino della cassaforte nascosta nella finta cassettiera.

Click.

Il lucido metallo della nove millimetri brillava di riflessi azzurrini, una promessa d’oblio; la impugnò con dita di gomma, estrasse il caricatore, lo esaminò, pieno.

Ma dovrebbe bastarmi un solo proiettile, e la fredda ironia con cui il pensiero lo attraversò fece calare su di lui un senso di pace e risoluzione.

Aveva studiato tutto nei dettagli. La Terni Vernici sorgeva in una piccola zona industriale a trenta chilometri dall’imbocco della Valnerina, l’incantevole vallata umbra dominata dalla cascata delle Marmore. Sarebbe montato in automobile e avrebbe attraversato la campagna, le mulattiere fangose, e poi su, su, oltre la pianura, nei boschi dove aveva trascorso tante battute di caccia, dove l'odore del muschio e delle foglie morte, il debole frusciare dei rami e il cinguettio delle capinere, gli avevano sempre concesso istanti di serenità.

Non voleva crepare nell’ufficio di un capannone industriale di periferia.

Avrebbe trovato un posto adatto nelle ombre di quei luoghi incantevoli, un ceppo dove sedersi e scolare un’ultima bottiglia di Cabernet.

E poi un gesto, il sapore salato del metallo, l'indice sul grilletto. Libero. Dalla paura, dall'insonnia, da Rizzi, dai debiti, dalle giornate che si trascinavano nell'attesa di una rinascita che non arrivava.

Vergò alcune righe su un foglio di carta, il biglietto d’addio a sua moglie. Poche semplici parole, niente autocommiserazione, nessuno sfogo, il saluto di un amico che parte per un lungo viaggio.

Non riuscì a trattenere lacrime e singhiozzi.

«Mi dispiace», sussurrò alla fabbrica vuota che risuonava del ticchettio dei macchinari spenti.

La vista annacquata.

La sera d’inverno che ghignava dietro le finestre, beffarda.

Pioveva senza sosta. Un sudario d’acqua disteso tra cielo e terra.

Franco Butieri s’alzò, lanciò un’ultima occhiata all’ufficio e uscì nel crepuscolo della sua vita.

Il bosco era umido, patria di fruscii, sussurri, sospiri. Lontano, simile al grido di un rogo indomabile, il frastuono della cascata delle Marmore che precipitava nella notte.

Fuoco e acqua: incredibile come il mondo fosse costituito da opposti che a volte parevano così vicini.

Morte e vita.

La bottiglia di Cabernet giaceva vuota ai suoi piedi. Le nubi erano state disperse da una brezza frizzantina; ne rimanevano alcune, lunghe e sfilacciate, incollate alla gobba inferiore della luna. Una fluorescente medusa cosmica che fluttuava in un invisibile mare di ioni e ossigeno.

Franco Butieri recitò un Padre Nostro, s'infilò la canna della pistola in bocca e fece fuoco.

Folletti, gnomi, gnefri.

Erano lì quando riaprì gli occhi, sputando sangue nel sottobosco, annaspando, i pensieri che correvano impazziti.

Lo guardavano, visi minuti dall'espressione imperturbabile.

Visi mostruosi.

Lineamenti animali e umani impastati in machere craciose, corpi tozzi e asimmetrici, piccoli trogloditi deformi di membra e ossa e pelle ruvida e sporgenze carnose, cagliati dalla lattea luminescenza della luna; nudi come vermi, ributtanti come vermi.

Occhi di bragia verdastra che erano il colore stesso della foresta, del mito, degli strati di humus che si decomponevano in eterno per perpetrare il crudele ciclo dettato da Madre Natura.

Gnefri.

Quante volte aveva raccontato le loro storie ai suoi nipoti?

Il sapore di cordite sulla lingua, un rigurgito satollo di sangue e frammenti scagliosi di palato.

Gnefri.

I folletti della Valnerina, burloni, scavezzacollo dei boschi, il cui massimo divertimento è spaventare lo sprovveduto viandante.

Oh, per fare paura fanno paura, pensò Butieri, riuscendo a mettere fuoco denti proiettati a casaccio tra minuscole labbra nerastre.

Un male atroce gli pulsava in fondo alla gola, nelle tempie, nell'anima.

È questo essere morti? O questo è il mio ultimo pensiero prima di morire? Gnefri? Perché sento dolore?

Serrò le palpebre.

Quando le riaprì non se n'erano andati.

Centinaia.

Irreali.

Fantasmi di carta velina incollati sul palcoscenico della realtà.

Più vicini.

Franco Butieri vomitò vino e imprecazioni, le unghie che grattavano nella terra.

Li osservò.

Balzati fuori da un Averno concreto o dagli abissi della coscienza?

Invadevano il suo campo visivo, uno sciame di follia.

Erano reali? O una conseguenza dei danni subiti, dello shock?

Non lo sapeva. Su una sola cosa c'erano pochi dubbi: non era riuscito ad ammazzarsi, e nuove staffilate di dolore e nausea giunsero a confermarglielo.