In principio ci fu la psichedelia.

Essa figliò ufficialmente tre volte. Nacquero così il Jazz-Rock, il Progressive Rock e l’Heavy Metal. Il primogenito è stato dato per disperso ormai da anni in ambienti colti, ma gli snob ritengono che lui stesso si rifiuti di manifestarsi alla massa. Il secondo fu orrendamente trucidato nella seconda metà dei ’70 da due loschi individui che rispondevano al nome di Punk e Disco, così il figlio venne cresciuto dallo zio. Il terzogenito, infatti, ancora vivo e vegeto, è andato e si è moltiplicato in decine e decine di sottospecie ancora disponibili sui cataloghi internazionali.

Ciò che la stampa musicale solitamente tace, però, è l’esistenza di un quarto figlio bastardo. Bizzarro ibrido, somigliante soprattutto ai due figli legittimi minori, misterioso e oscuro, sfortunato e satanico, orrorifico e fantascientifico, non ha mai avuto un nome, ma è stato chiamato in molti modi: Black Widow, Lucifer’s Friend, Spooky Tooth, Rush e numerosissimi altri; ma chi ha letto David Copperfield ricorderà sicuramente quello di Uriah Heep.

Pare che molte delle incarnazioni di questo essere siano state vittime di un rapimento alieno in uno stadio statunitense agli albori dell’AOR e sostituite con entità collettive dai nomi più esplicitamente legati al complotto, quali Kansas, Boston, Chicago o - addirittura - AMERICA; altri, come i Rush, sono stati rimpiazzati da una copia difettosa, infettata da elementi legati alla contemporaneità, ma proprio per questo più interessante; altri ancora, come i Black Widow, si sono tenuti alla larga dalle varie manipolazioni dei governi ombra, nascondendosi in un bosco sacro bretone, e pare stiano tornando in forma smagliante. Infine, ci sono gli Uriah Heep.

Chi siano questi, resta davvero un mistero. Non solo un certo qual rispetto per l’Inghilterra vittoriana ha fatto mantenere loro il nome di dickensiana memoria, ma persino UNO dei membri originari della band ha ancora il suo proprio patronimico.

La copia è così perfetta che diventa impossibile scorgere differenze fra i suoni di adesso e quelli di allora, certi passaggi dei brani sono mimati alla perfezione e ascoltare questo Wake the Sleeper è come riprendere in mano uno dei vecchi dischi, privato però della sua scintilla vitale.

C’è dunque il caso che si tratti di androidi.

Di progressivo restano l’uso massiccio dell’hammond e del contrappunto vocale (caratteristica che, in ambito prog, vedeva i suoi massimi rappresentati nei Gentle Giant); il resto è un sound più votato all’hard rock a cavallo fra i ’70 e gli ’80.

Anche distaccandosi dal prog propriamente detto, resta poca varietà, poco dualismo timbrico. La capacità dell'hammond di ricreare tappeti armonici sullo sfondo è sempre notevole, ma l'omoritmia fra gli strumenti a corda la fa da padrone, spogliando il tutto di ogni sorpresa.

Da subito, la title-track ci proietta in un clima di instabilità, con cori in scala cromatica discendente all’unisono con l’hammond. Fatta eccezione per questi e per la ripetizione ossessiva del titolo, il brano si configura come strumentale. Sembrano proprio gli Uriah Heep, il loro stile è inconfondibile e i suoni paiono ricavati da un misterioso disco del passato mai dato alle stampe.

Niente di nuovo succede con la seconda e la terza traccia (Overload e Tears Of The World), se non l’affacciarsi di sonorità più orientate verso l’era dei rapimenti, soprattutto per l’uso corposo di soli chitarristici impiantati su armonie di chitarre e basso all’unisono. L’ascolto dei pezzi è piacevole, i riffs e le melodie vocali molto orecchiabili, ma la gran parte delle strutture ritmiche e armoniche è troppo logora, per provenire da maestri come i veri Uriah Heep.

I valori ritmici si dimezzano con Light Of A Thousand Stars, e poi ancora con Heaven’s Rain (in cui compaiono passaggi chitarristi orientaleggianti, che cominciano a giustificare anche musicalmente il concetto espresso dalla cover), ma questi appaiono finora gli unici cambiamenti. Stesse atmosfere, stessi impasti armonici, stesse soluzioni progressive usate più per amarcord che per reale ispirazione.

La faccenda comincia ad annoiare con la traccia numero sei (Book Of Lies). Con la sette, What Kind Of God, si accenna, con dissonanze e brevi passaggi strumentali, a multisezioni progressive (tanto che certe note acute compresse sul palato richiamano alla memoria un altro gruppo purtroppo scomparso, come tutti sanno, intorno alla metà dei ‘70, ovvero i Genesis) che non si delineano mai in quanto tali, perché spezzate ogni volta dal ritornello o da assoli chitarristici di matrice puramente rock; l’interminabile finale strumentale, poi, ci lascia l’impressione di voler somigliare il più possibile a quello di One way or another (da Hight and Mighty, 1976) e viene pericolosamente sfiorato il rischio di cadute nel patetico.

L’ottavo brano, Ghost Of The Ocean, porta un diverso assortimento di valori ritmici e tonalità, seppur minimo, ma il risultato non cambia. La struttura è quella standard della ‘forma canzone’, oltretutto sviluppata in melodie poco suggestive.

I cambi di valori e tonalità si accentuano in Angels Walk With You, su di un impianto più ‘largo’, brano più complesso e sofisticato, ma che non porta comunque niente di memorabile.

Shadow è il pezzo che, se fosse stato contenuto in un vecchio album, avrebbe potuto diventare un classico della band: ogni strumento ha un suo spazio, con fraseggi melodici sia all’unisono sia in solo, la strofa non si lascia dimenticare, i valori ritmici cambiano in modo interessante, ma non siamo all’interno di un album di allora, e il brano si perde fra richiami e ovvietà di ogni genere.

Stesso motivo per cui non convince neppure l’ultima traccia, War Child, nonostante l’ottimo inizio teatrale.

Le aspettative erano molto, ma molto più alte. Le idee sono davvero poche per riuscire a colmare un’attesa di ben dieci anni.

Sono quasi certa che la reverenza per il nome spingerà alcuni, più o meno inconsciamente, a reclamare per questo disco ben più delle due stelle che gli ho affibbiato, ma giuro che stanno lì giusto per la tecnica e l’amalgama sonoro di questa band, perché, se qualcuno mi avesse detto che erano i veri Uriah Heep, ne avrei data solo una.

Non voglio speculare sui significati filosofici del titolo. A ma piace pensare che il dormiente sono io e questo è solo un incubo da cui mi sveglierò per entrare in quel delirio di Stephen King intitolato E hanno un band dell’altro mondo, dove David Byron è ancora lì che canta Time to live con Marc Bolan, Freddy Mercury, Janis Joplin, Brian Jones, Keith Moon, Buddy Holly e Stevie Ray Vaughan.

Peccato che, pure il Re, si dimenticò di lui…