Parcheggiò la Panda nello spiazzo davanti alla saracinesca, presto si sarebbe potuto comperare una macchina nuova, voleva un fuoristrada, ne aveva già in mente un paio che gli facevano salivare la bocca. Suo padre era all’ingresso, fermo, le braccia lungo i fianchi, come un automa pronto a ricevere ordini. I primi periodi lo riportava a casa, gli sembrava giusto così, ma lui e la mamma s’ignoravano tranquillamente e se Raffaele non gli dava qualcosa da fare se ne stava inebetito a fissare il vuoto. Tanto meglio, così poteva lavorare tutta la notte.

- Hai fatto tutto? - chiese. Il padre assentì. Il viso era stato colorato ad arte da Raffaele che, fin da quando era ragazzino, aveva sognato di fare il disegnatore di fumetti. Aveva imbrattato chilometri di fogli, prima che suo padre lo portasse a calci nel culo in officina, minacciando di bruciare tutte le sue opere. Dopo una vita a prendere ordini e sentirsi dare del minchione, Raffaele ci provava un certo gusto a ribaltare il rapporto, controllava con aria critica il lavoro svolto durante la notte, gli spiaceva solamente di non cogliere, sulla faccia del genitore, quello sguardo preoccupato che aveva lui ai brutti vecchi tempi, terrorizzato di aver combinato la minchiata che gli avrebbe tirato addosso riprovazione, insulti e qualche scappellotto ben assestato. - Dovevi stringere meglio questa benda, vuoi che il braccio gli rimanga pendulo? Poi non esagerare col silicone! Mica me lo regalano, ti ho detto di metterne il giusto. - Sollevò il pollice come a contare. - Quanto basta per coprire le due estremità dell’osso. - Poi sparò fuori anche l’indice. – Ma non troppo da uscire dalla pelle, quando la cucio non voglio che dalla ferita venga fuori roba gommosa! - Il braccio che aveva aggiustato era tenuto insieme da silicone e garza. - Prova a muovere le dita - disse Raffaele alla carcassa; questa chiuse il pugno e lo rilasciò. - Bene, se non altro funziona, ma bisognerà controllare la tenuta con qualche peso e dovrò grattare il silicone in eccesso. - Più di una volta clienti inferociti erano tornati perché le carcasse aggiustate si rompevano non appena cercavano di sollevare qualcosa di troppo pesante. Era stato l’unico inconveniente della sua attività, ora usava siliconi e polimeri ad alta tenuta, più facile rompere il braccio che la giuntura.

- E questo? - domandò inferocito Raffaele. La carcassa seduta sulla panca era stato un uomo maturo. La folta capigliatura bianca resisteva al suo posto. Due occhi castani lo fissavano un po’ sbarrati. Le braccia abbandonate in grembo. Le gambe, allungate sul pavimento, erano storte e a quanto sembrava asimmetriche. - Cos’è ‘sto schifo? - Suo padre abbassò la testa. Dentro di sé Raffaele gioì per quella tacita ammissione di colpa. Poi il genitore cercò di parlare consumando un paio di tentativi.

- Caaaminaaa.

- Camminerà anche, ma non possiamo presentarlo così. Accidenti! Lo sai cosa c’è scritto fuori? - Lasciò un paio di secondi di silenzio, contemplando il cranio calvo del padre e gustandosi l’autorità acquisita. – “Restauro da Raffaele”. Li ripariamo, li restauriamo, li abbelliamo. - Indicò pomposamente la carcassa seduta sulla panchina. - Ti sembra bello? Ti sembra restaurato? - Incrociò le braccia. Lo stesso gesto che suo padre faceva in vita, quando aveva finito la pazienza e si apprestava a ricordargli un concetto già espresso fin troppe volte. - Non basta che funzionino, quello lo sanno fare tutti, noi diamo di più, ficcatelo in testa! - Usava le stesse parole del genitore. Raffaele si domandava se, dentro quel cervello morto, ci fosse qualche barlume di ricordo e la consapevolezza del ribaltamento della situazione. Sospirò teatralmente, avrebbe dovuto pensarci da solo. - Tu occupati della mano di quello e vedi di fare un bel lavoro. - Colui che era stato Carlo Negretti si voltò per eseguire il compito.

- Sdraiati sul tavolo - ordinò Raffaele alla carcassa dalle gambe deformi. Quello faticosamente si mise in piedi e cominciò a zoppicare e arrancare per il capannone fino al grosso tavolo di legno. Glielo aveva portato un contadino; senza accorgersene, gli era passato sopra col trattore maciullandogli le gambe. Per fortuna i muscoli erano ancora tutti attaccati. Raffaele aveva notato che se anche un minimo frammento di muscolo rimaneva attaccato, le carcasse erano in grado di muovere gli arti, ma se si recideva di netto la muscolatura, il resto dell’arto era inutilizzabile per sempre; potevi metterci tutto il silicone che volevi, potevi cucirle con giri e giri di filo di sutura, ma non serviva a niente. Chiuse le morse al femore e al ginocchio, poi con la grossa mazzetta da muratore cominciò a spaccare le giunture. Colpi netti ci volevano. Le ossa si rompevano con un rumore di rami spezzati, la carcassa non faceva una piega. Ce n’erano alcune che istintivamente cercavano di ritrarsi, forse ricordando il dolore che avrebbero provato in vita, ma quando si rendevano conto che non ci sarebbe stato niente, se ne stavano buone a farsi aggiustare.