Quel palazzo era strano.

Quattro piani, facciata d’oltre 20 metri di lunghezza, massiccio, imponente. Risaliva al 1512, a dar credito alla data incisa sotto al blasone di pietra annerita; una schematica forma di viso privo di naso, bocca e orecchi, con tre paia d’occhi sovrapposti. La costruzione era in completo abbandono; intonaco screpolato, decorazioni in stucco mangiate dal tempo e dallo smog, porte e finestre sprangate. Eppure...

Eppure Andrea, da quasi 17 anni – la sua età – non si stancava di guardarlo. Abitava di fronte, in un edificio molto più recente, costruito sulle macerie d’un antico palazzo crollato come un castello di carte agli inizi del Novecento. Fondamenta marce, si disse.

Già da bambino, restava lunghi momenti a contemplare quell’enorme blocco di pietra e silenzio che, lo sapeva bene, non era disabitato. L’aveva detto ai genitori, ma non l’avevano creduto. L’aveva ripetuto agli amici, alla maestra, al postino, al vigile urbano... stesso risultato. Nel quartiere, tutti sapevano che quel palazzo era all’abbandono da decenni. Apparteneva a una vecchia nobildonna che, chissà per quale motivo, non se ne occupava e non voleva venderlo. Ma Andrea era sicuro che all’interno del palazzo ci vivesse gente. Tre donne, per la precisione, tre stravaganti e bellissime gemelle.

Varcata la soglia dell’adolescenza, cominciò ad avere un’idea sempre più precisa degli strani giochi a cui si dedicavano da anni le gemelle. Le tre ragazze erano d’una stessa identica, incomparabile bellezza. Pelle chiarissima, lunghi capelli neri, grandi occhi color del petrolio, labbra turgide d’un bel rosso fragola. Riusciva a vederle solo di notte, e non sempre. Le tre sorelle erano timidissime, schive del mondo, mai le aveva viste uscire o solo affacciarsi a una finestra. Come potevano sopravvivere così recluse? Chi comprava loro da mangiare e da bere? Chi i velluti, le sete preziose, i veli trasparenti con i quali passavano ore a cucire meravigliosi e stranissimi vestiti? Le sorelle indossavano quei sontuosi abiti, rigorosamente di colore nero, a tre a tre identici, solo le notti di luna piena. E così abbigliate, si dedicavano, con vari strumenti, ai loro giochi. Le altre notti, erano vestite d’una semplice tunica bianca e passavano la maggior parte del tempo a cucire. Di giorno, le tre sorelle erano invisibili, le stanze del palazzo inizavano ad animarsi solo al calar del sole. Spesso Andrea s’appostava alla finestra della sua stanza e, protetto dalle ombre, attendeva il momento in cui sarebbero apparse. Soprattutto le notti di luna piena.

Col tempo, le finestre dell’antico palazzo avevano perso molte delle assi che le sbarravano, così, al lume dell’unico candelabro a tre bracci che le ragazze portavano sempre con loro, Andrea aveva una visione frammentata, da film schermato. Ma quei “ritagli” erano già eloquenti. A momenti, non riusciva a sostenere la vista dei sensuali e terribili giochi a cui si lanciavano le tre sorelle. I loro occhi s’accendevano, i loro visi si trasformavano. Sembravano avere fame e sete; una fame antica di secoli, una sete come solo può averla la sabbia del deserto sotto al sole cocente. S’applicavano a quei giochi senza ausilio di uomini né d’altre donne. Mai aveva visto altre persone in quelle stanze, ma se non erano presenti uomini, c’erano strumenti che fungevano da validi e più resistenti sostituti. Andrea non aveva bisogno di toccarsi, la sola vista delle gemelle in azione era capace di rendergli il membro talmente duro da far male. Spesso gioiva con loro, con un tempismo che lo turbava; che le tre creature fossero capaci di stabilire con lui un contatto erotico a distanza? A volte, aveva l’impressione che riuscissero a vederlo, che gli lanciassero sguardi, vaghi gesti, come l’invitassero a raggiungerle.

La notte in cui avrebbe compiuto 17 anni, era una notte di luna piena. Fu al momento di rendersene conto guardando il calendario, che decise d’entrare quella notte stessa nel palazzo dalle porte e dalle finestre sprangate. Come? Avrebbe trovato il modo. Perché? Voleva vedere da vicino le tre sorelle. Non “a brandelli” come aveva fatto finora, voleva gustare la luce dei loro sguardi, sentire il calore della loro presenza, i gemiti caldi delle voci. Voleva vedere nei minimi dettagli quei corpi perfetti, di bambole di porcellana. Eppoi, non aveva ben chiara la forma di molti degli strumenti utilizzati dalle sorelle. S’era procurato un binocolo, ma le gemelle le notti di luna piena erano sempre abbigliate con quei voluminosi abiti neri, le differenti stanze in cui avevano luogo i giochi e la visione “frammentata” complicavano il tutto.