Ti porterò nel sangue, nuovo romanzo di Chiara Palazzolo, in uscita da Piemme il 13 marzo prossimo (448 pagine, 17,90 euro), è l'attesa conclusione della trilogia con protagonista la giovane Mirta, che dopo essere morta per overdose assieme al suo Robin, esce dalla tomba, riscoprendosi ancora innamorata ma anche... diversa da prima, con strani appetiti assassini. Rivelazione dell'horror italiano degli ultimi anni, la saga dei "sopramorti", iniziata con Non mi uccidere (2005) e proseguita con Strappami il cuore (2006), arriva così alla conclusione e racconta le ultime avventure di un'eroina nuova, originale, fragile e crudele, alle prese con la durissima resa dei conti finale.

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In contemporanea all’uscita del terzo romanzo, Piemme edita a larghissima tiratura nella collana Serie oro il minipocket di Non mi uccidere, al prezzo di 4,90 euro, da cui sta per essere tratto un film.

L'autrice, i sopramorti, i benandanti e l'Italia

Chiara Palazzolo è nata a Floridia, in provincia di Siracusa, ma vive da diversi anni a Roma. Vincitrice del Premio Teramo, il suo romanzo d'esordio è La casa della festa (pubblicato nel 2000 da Marsilio), Premio Orient Express Opera Prima. Nel 2003 ha pubblicato I bambini sono tornati (Piemme), di cui sono stati acquistati di recente i diritti cinematografici.

Nel 2005, con il romanzo Non mi uccidere, prima avventura di Mirta-Luna, ha ideato i sopramorti, inedito incrocio tra zombie, vampiri e immortali. Deceduti anzitempo, ben consci della loro vita passata e di ciò che sono diventati, questi esseri sono rimasti tutti giovani, dotati di una forza sovraumana e periodicamente costretti a nutrirsi di carne umana, grazie alla quale tornano vivi per pochi istanti, evitando così che i loro corpi siano consumati dal rigor mortis. Possono volare e al contrario di altre creature maledette sono in grado di muoversi alla luce del sole. Possono morire per la seconda volta, per esempio se fatti a pezzi o bruciati, ma i sopramorti stessi ammettono di non conoscere il significato di morte definitiva, di ciò che cioè potrebbe accadere alla loro essenza, alla loro anima. L'autrice ha specificato: "Nel mondo vittoriano il vampiro è simbolo della paura della sessualità libera. I miei sopramorti, invece, nascono in altro contesto, dopo il 2000, e sono metafora dell’ostilità del mondo come lo percepiamo adesso. I sopramorti riflettono il clima scuro con cui si è aperto il millennio, il dopo-11 settembre. Mentre nel vampiro classico c’è al fondo una sorta di rimpianto per la vita, nei miei sopramorti questo rimpianto è sostituito da molta rabbia".

I benandanti, nella trilogia i cacciatori di sopramorti, sono invece realmente esistiti in Friuli e probabilmente in tutta l’area alpina di confine tra Cinquecento e Seicento. Su di loro ha indagato lo storico Carlo Ginzburg, nell'esaustivo saggio I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento. Nella tradizione contadina, i benandanti assicuravano la fertilità dei campi, difendendoli dai "malandanti", cioè le streghe, gli stregoni, le anime cattive dei morti, ed erano gli unici in grado di guarire dal malocchio. Prendendo spunto dalle notizie storiche, l'autrice trasforma i benandanti in un moderno gruppo organizzato, con al vertice i "battitori", soldati dotati di una grande forza fisica e di capacità telepatiche.

L'Italia misteriosa, dei piccoli borghi o delle grandi città, è il palcoscenico delle avventure di Mirta-Luna, che muove dapprima i suoi passi di sopramorta in Umbria, la regione dov'è nata e cresciuta (e morta), tra i boschi del Parco del Subasio. Fa numerose tappe tra i paesi che punteggiano la zona, tra Perugia, Spello e Foligno. Si reca anche più a sud, dai Sassi di Matera alla campagna pugliese, fino alle rovine romane dell’antica Benevento. Abita per diverso tempo con la sopramorta Sara a Roma e si aggira per le periferie della capitale. Tra i numerosi spostamenti da un capo all'altro della penisola, in Ti porterò nel sangue approda anche a un misterioso borgo fortificato che si annida alle pendici del Cimino, tra le suggestive cime dell’Alto Viterbese.

Tre domande a Chiara Palazzolo

Perché si è accostata al genere horror?

Non considero l’horror un genere. Lo è stato fino agli Ottanta. Ma il neo horror del Duemila non è più un genere. E’ la cifra del nostro tempo. Esiste un termine inglese, “mood”, intraducibile, che è insieme stato d’animo, contesto ambientale, stile di vita, tendenza. Ecco, mi sembra che l’horror – letterario, musicale, cinematografico, artistico – sia un “mood”, in cui siamo immersi e di cui dobbiamo cogliere emozioni e risonanze. “Dark mood” è il mondo in cui viviamo. Qualcuno ne dubita, dopo l’11 settembre?

L’11 settembre ha scatenato le fobie sociali. Ma quale resta la paura più grande?

Per me, la paura, poco letteraria e tutta esistenziale, della morte. Infatti questa trilogia, in cui la figura del ritornante si incarna nella eterna teen-ager Mirta-Luna, rappresenta una sorta di esorcismo. Un modo di sconfiggere la morte, operando un incantesimo narrativo che la abolisca, o meglio la “sospenda”. Come Mirta-Luna è sospesa tra la vita e la morte, in quella terra di mezzo in cui abitano i sogni. E gli incubi.

La scrittura è un antidoto alla paura?

Lo è da sempre. Perché ci permette di rivivere nell’immaginario e quindi di convivere con le nostre paure, filtrandole attraverso una ricerca di senso. Per superare il trauma, bisogna dargli voce. Parola. E’ proprio quello che Mirta, la sopravvissuta alla morte, fa. Mirta parla. Racconta. E ogni sua parola la rende sempre più viva. La restituisce dal mondo dei morti a quello dei vivi.