Si sta facendo buio. I tedeschi sembrano finalmente intenzionati a levare le tende. La donna schiaccia l’ennesimo mozzicone di Camèl tra i suoi numerosi fratelli ammonticchiati per terra, poi si mette lo zaino tra le gambe e lo apre. Ne estrae un fagotto, lo poggia a terra e lo svolge. Tra i cenci fa capolino l’occhio sbilenco, spalancato, all'erta; il buco del naso continua a far bolle mentre quella specie di bocca ha rigurgitato qualcosa di nerastro che puzza di merda. Non è nemmeno morto soffocato.

E’ sola. Nessuno che possa vederla. La donna si avvia verso il punto d’affaccio sul cratere. Si sporge finché può, le braccia tese, spenzolando il mostro nel baratro senza neanche uno straccio di misericordia su quelle nudità deformi. Ma ecco che un piede scivola sul pietrisco facendole perdere l’equilibrio; il corpo ora è sbilanciato in avanti, basterebbe un soffio di vento per seguire la sorte del neonato e di vento, quel giorno, ce n’è più del giusto.

Sono attimi ma sembrano secoli. La donna serra i denti e guarda dritto nell’occhio sbilenco, dove i colori vorticano e si avvitano gli uni sugli altri. Se ne fissi uno lo vedrai compiere una spirale sempre più breve, più breve, fino a sparire nel buco nero della pupilla e tu potresti finire giù con lui. Chissà cosa c’è oltre quel buco nero.

Vieni.

Woooooossssssshh! Un colpo di vento. Tutti quei colori…

Vieni con me, nonnina bella.

In lontananza si sente il grido di una poiana.

Vieni che ti faccio vedere.

La donna apre le mani e lascia cadere il neonato nel cratere. Lo guarda precipitare portandosi dietro quel suo occhio sbilenco e subdolo. D’’o ffuoco vene, e dint’ ‘o ffuoco adda turnà! Lo schianto al suolo produce un rumore flaccido che echeggia nel silenzio assoluto e nel suo stomaco. C’è bisogno di una sigaretta. La donna finalmente sorride al chiarore della piccola brace.

Si chiude alle sette, signo’!

Accidenti, come si è fatto tardi. Meglio scendere.

La donna raccoglie lo zaino, ci ficca dentro i cenci che avvolgevano il mostro, sparpaglia i mozziconi con la scarpa e si avvia.

Già, ma dove? La donna si guarda intorno; che strano, non ricorda il colore del picchetto segnavia che contrassegnava il sentiero dal quale era venuta. Cerca la mappa nella tasca. Non c’è. Già, il vento se l’è portata via. E’ proprio buio, ora. La donna prende l’accendino ma è inutile, il vento è troppo forte. Non si vede nemmeno la luna, coperta da scuri nuvoloni gravidi di pioggia.

Maronna… e mmo? Comm’ cazz’ me ne vaco ‘a cca ‘ncoppa?

A tentoni raggiunge il corrimano che circonda il cratere: se lo segue fino al punto in cui si biforca, dovrebbe raggiungere l’imbocco del sentiero. Sotto le mani il ferro è gelido come la sua anima. Cammina con cautela, mettendo una mano avanti all’altra in attesa di tastare la biforcazione. Arriva ad un tratto di catena: c’è un anello semiaperto, potrebbe essere pericoloso. Cammina. La biforcazione non arriva. Cammina. E’ buio pesto. Il custode avrà già chiuso da un pezzo, mica si sarà ricordato della donna con lo zaino. Si ferma un attimo per riscaldarsi le mani. Riprende a camminare. La biforcazione non arriva. Ha di nuovo l’affanno, e le palpitazioni. Cammina. Un’altra catena. No, un momento… è la stessa! La riconosce dall’anello semiaperto.

Calma, niente paura. La biforcazione dev’esserle sfuggita. Bisogna riprovare ma più lentamente, stavolta.

Riparte, stessa tecnica. Il vento incalza, ha le mani intirizzite. La donna pensa ad Angela abbandonata nel suo letto. Ecco… è la biforcazione? No, è ancora la catena. La stessa stramaledetta, fottuta catena di prima. Con un gesto rabbioso la donna si toglie il cappuccio e comincia a scuotere la testa come una animale inferocito, poi afferra due ciocche dei suoi ruvidi capelli e brutalmente le strappa via.

Vafancuuuulo! Vafanculovafancuuuulo!

Spunta uno spicchio di luna, quel tanto che basta per illuminare la donna con ancora i ciuffi di stoppa tra le mani e due rivoli vermigli che le colano sul viso. Si asciuga gli occhi bagnati di pianto e sangue e riesce ad intravedere un sentiero. Si precipita in quella direzione prima che la luna scompaia di nuovo dietro le nuvole.

Ci vuole una traccia da seguire, come prima il corrimano di ferro. Tasta tutt’intorno. Il muretto a secco, ecco la traccia. La discesa. Inizia a derapare procedendo con il sedere contro le pietre, il cuore a mille ed un sorrisetto sulle labbra. Si torna a casa, finalmente.