Interessante e curioso progetto della casa editrice Watson, la collana "Ritratti" si pone l’obiettivo (davvero stimolante) di pubblicare una serie di biografie “irregolari" di alcuni dei personaggi più influenti – e più enigmatici – di tutti i  tempi, arruolando per l’occasione un manipolo di ottime penne reclutate nel variegato sottobosco del fantastico italico.

La serie, nel frattempo giunta al quinto episodio, sembra andare molto bene e questo personalmente mi rallegra non poco, in quanto ho sempre avuto un debole per idee simili, pregne di sincero entusiasmo (e qui il merito va tutto al suo ideatore, l'editore Ivan Alemanno) e senza porsi troppe domande. Cose fatte cioè, per il semplice piacere di farle e senza timore di porsi davanti a nuove sfide.

Così, dopo l'esordio con la sempre più promettente Laura Scaramozzino e la sua Louise Brooks – Due vite parallele, seguito da Paul Verlaine – Il fiore del male ad opera dell’eclettico fantasista romagnolo Angelo Berti, arriviamo al terzo capitolo che ci accoglie fin da subito con alcune novità positive, a partire dalla veste grafica.

Le prime due cover infatti, pur comprendendo le difficoltà di sorta – una fra tutte probabilmente la necessità di uscire nel più breve tempo possibile – erano

improntate a un minimalismo forse un po' eccessivo.

Poco male perché nel frattempo, potendo fare le cose con più calma, si è corretto il tiro e i risultati si vedono eccome: grafica sobria ma più curata e decisamente più riconoscibile.

Complimenti infine alla casa editrice romana per lo sforzo fatto per porre rimedio a quello che un tempo costituiva, a mio modesto parere, il principale tallone d'Achille dei lavori targati Watson, e cioè un numero un po' troppo alto di refusi che, pur non togliendo sostanzialmente valore alla qualità delle singole opere, ne disturbava la lettura. Da un po' invece, grazie al buonissimo lavoro svolto da Arianna Rossi in fase di editing e di revisione del testo, questo non accade più; o comunque in misura assai minore.

Insomma, alla Watson han deciso di agire come purtroppo non tutti fanno: anziché rispondere piccati a chi faceva notare la cosa (e non sempre in modo educatissimo, va detto) han pensato bene di rimboccarsi le maniche e darsi da fare per migliorarsi; atteggiamento questo che è sinonimo di grande maturità. Chapeau.

E veniamo ora a Vincent Van Gogh – Autoritratto con spada giapponese ad opera di Andrea Berneschi, nome affatto nuovo agli appassionati di fantastico italiano per i numerosi lavori che vanno dalla fantascienza all'heroic fantasy, senza dimenticare le incursioni nelle antiche passioni per l'horror e per il mondo dei kaiju, frutto del grande amore dell'autore aretino nei confronti del cinema di genere orientale e delle sue mille suggestioni.

Oriente che ritorna in qualche modo anche in questo romanzo in cui Berneschi ci mostra una delle sue più apprezzate peculiarità; quella cioè di riuscire a mixare con grande abilità e notevole spirito di inventiva, elementi apparentemente lontanissimi tra loro ma che, una volta miscelati sapientemente dal “barman", danno vita a un cocktail particolarmente riuscito e che vi fa venire subito voglia di ordinare un altro giro.

Diciamo subito che la trama si sviluppa in modo volutamente obliquo, con diversi e improvvisi salti temporali, cercando di interpretare, utilizzando le chiavi di lettura proprie dell’orrore cosmico e di certo fantasy non convenzionale, alcuni tra i più grandi misteri che aleggiano da sempre intorno alla figura del geniale e controverso artista olandese.

Berneschi, nel tratteggiare la vita dell'autore di capolavori immortali quali I girasoli, parte proprio da dove tutto ebbe inizio: dall’infanzia che Van Gogh trascorse insieme alla madre, al padre predicatore e al fratello minore Theo (figura cardine questa) nelle campagne intorno alla cittadina natale di Zundert. Questo avviene proprio nei giorni in cui il piccolo Vincent scopre di poter disegnare immagini che trasmettono grande potenza all'occhio di chi le osserva, soprattutto le sue interpretazioni dell'Oude Roge Ogen, il Vecchio dagli Occhi Rossi, demone ancestrale del folklore fiammingo, che si aggirerebbe tra le brughiere nelle gelide notti invernali, nutrendosi di poveri malcapitati. Figura questa che, oltre a rappresentare un vero e proprio boogeyman per il Vincent bambino, in seguito si trasformerà in un'autentica ossessione che lo accompagnerà per tutto il resto della sua breve vita.

Attraverso gli occhi di Theo, col quale il pittore ebbe sempre un rapporto di grande amore e rispetto nonostante i contrasti che pure non mancarono, Berneschi compie un salto in avanti vertiginoso e ci mostra Van Gogh nei suoi ultimi giorni al manicomio di Arles, mentre racconta al fratello una lunga e pazzesca storia che va a riempire i vuoti del suo passato e che, soprattutto, aiuta a far luce – anche se in modo incredibile – su una serie di avvenimenti misteriosi che lo riguardano, in particolare sulla celeberrima mutilazione all'orecchio che egli si sarebbe autoinflitto.

Da qui il buon Andrea, con rapidissime ma intense pennellate, ci rende partecipi di un viaggio allucinato e allucinatorio, in cui si fondono fatti storici realmente accaduti e passaggi fantasiosi che danno vita a una danza convulsa dal ritmo ora cadenzato, ora vertiginoso.

L'autore, in più di un’occasione, dà l’impressione di voler spingere al massimo il motore della narrazione e, lo confesso, mi sono spesso trovato a pensare che stesse un po' esagerando, col rischio concreto di finire fuori strada. Eppure, grazie a intuizioni inattese e a sterzate quasi al limite, questo non si verifica praticamente mai, anche se magari qualcuno potrebbe anche avere qualcosa da ridire in tal senso.

Fatto sta che la bravura del Berneschi si nota, a mio giudizio, in particolar modo nella descrizione di certi paesaggi, del cielo cupo delle Fiandre che si fonde col mare color piombo e con il verde intenso della campagna; oppure col nero malsano del fondo di una miniera, in una tavolozza in cui predominano i colori freddi.

Frammenti ricchi di espressività che svelano una dote dello scrittore toscano che forse finora potrebbe essere sfuggita ai più: vale a dirsi una notevole capacità di saper raffigurare le cose con un tocco poetico non indifferente, sia che si tratti di descrivere scenari impossibili, sia che debba parlare delle spaventose condizioni in cui nel diciannovesimo secolo erano costretti a lavorare gli sventurati che per pochi spiccioli si calavano nelle viscere della terra a spalare carbone.

Per tutte queste ragioni risulta così molto arduo parlare della trama senza rischiare di rivelare qualcosa di troppo che toglierebbe una buona dose di sorpresa, o rischiare di incappare nella temuta maledizione dello spoiler; il mio modestissimo consiglio perciò è di procurarvi al più presto questo libro e magari di dare un'occhiata anche agli altri titoli pubblicati dalla collana “Ritratti”.

Cosa che, del resto, conto di fare il prima possibile anche io.