Uscirà il prossimo 23 luglio 2013 Underworlds, il terzo full-lenght in carriera dei texani Mammoth Grinder, a distanza di quasi quattro anni dall'uscita di Extinction of Humanity (Relapse Records/Cyclopean Records). La band, con il precedente album, aveva dimostrato di sapersi distinguere per un death metal inclinato per certi aspetti verso il punk HC, direzione mantenuta poi anche nello split datato 2011, in collaborazione con gli Hatred Surge: alle soglie di Underworlds, il mix di generi musicali si configura attualmente come un grind/death/thrash cattivo e potente, e i quattro - Alex Hughes, basso; Brian Boeckman, batteria; Chris Ulsh, chitarra e voce, Wade Allison, chitarra - dimostrano una versatilità e una precisione veramente notevole.

Una nota di merito anche all'artwork, firmato dal celebre Joe Petagno (Pink Floyd, Led Zeppelin, Motörhead, Marduk), ennesimo elemento vincente del disco in uscita per 20 Buck Spin.

La title track ci lancia in preda alle convulsioni in un pantano di guano e acido muriatico: potente ed energica, si divincola in passaggi di chitarra vorticosi su di un tappeto stabile e ben spedito.

La voce grida senza pietà, decisa e instancabile, in un'atmosfera a cavallo tra il punk hardcore e il death metal: in un lampo, arriva il silenzio. Underworld è uno shot di whiskey e una mazzata da baseball fra capo e collo, il tempo di accorgersi che è arrivata, e hai già perso i sensi.

Più cauta, in apparenza, Wraparound Eyes prende il via su un terreno corposo e scivoloso, per poi cadere in un dirupo di violenza e rabbia folgorante: le dinamiche spedite vanno a fondersi con la cupezza della chitarra e una voce decisa e sporcata di un rauco piuttosto interessante, con un'alternanza di tempi veloci e moderati. Il ritmo si dimezza, e subito la sensazione che ne emerge è quella di vedere una rissa a rallentatore: l'obiettivo immaginario si focalizza su ogni dente insanguinato in volto, su ogni pugno diretto, e subito di nuovo un turbinio spedito confonde, ma carica, carica e carica, lasciando una forza taurina sospesa e scalpitante, in attesa di poter esplodere.

La chitarra acidissima e noise che apre Revenge annuncia un pezzo più calmo, ma comunque intenso e prepotente: la corposità dei suoni viene squarciata da un assolo di chitarra stridulo e istantaneo, per poi tornare a fondersi col riff portante del brano, coinvolgente ed energizzante. Un'altra breve pausa di assolo introduce un finale galoppante e poderoso, che lascia spazio a Paragon Pusher: senza troppi complimenti, si squarcia lasciando fuoriuscire un corrosivo sound accattivante e violento. Si picchia duro dietro alle pelli, mentre le dita si dimenano instancabili sui tasti della chitarra: un riff ben riuscito, semplicità agghiacciante, e un risultato veramente buono.

Piuttosto cupamente, Barricades inizia con un giro di chitarra corposo e oscuro, evolvendosi in un pezzo violento, ma dalle componenti ritmiche più contenute: è un brano dal sapore ferroso, ma che tuttavia non trova la sua dimensione perfetta. Potenzialmente potrebbe esplodere in un qualcosa di più definito e personalizzato, ma resta bloccato nel proprio guscio, trattenendosi dal regalare la carica che, all'ascolto, risulta evidente portare con sé.

Cogs In The Machine si avvia con un riff molto energico e spedito, dove immediatamente va a incastonarsi la voce sporca e acida: un ritmo ben tirato e veloce, si mantiene per tutta la strofa cattiva e coinvolgente, continuando come sfondo all'assolo di chitarra ben articolato, che suona a tratti come un sordo lamento di follia. In netto contrasto, Roperide si articola immediatamente con un riff duro, ma inesorabilmente lento e compatto: il timbro vocale rimane una fedele costante, valida per tutti i brani e instancabile, e anche in questa traccia non mancano le pennellate serpeggianti di sei corde.

Carismatica, Breeding è un'esplosione di energia dinamica, una travolgente pioggia di rabbia e chiodi. Le componenti musicali di questa traccia, sono talmente valide da renderla probabilmente la migliore in tracklist: rimane piantata in testa, pronta a ringhiare e a difendere il proprio terreno.

Ci troviamo in un lampo di fronte a Born In A Bag, dove, anche in questo caso, di certo rabbia e carica violenta, non tendono a farsi rimpiangere né a mancare. Una bella fucilata rumorosa e instancabile, pronta a digrignare i denti e a divincolarsi in un bell'assolo, unica nota di melodia, seppur velata di un certo gusto noise, nella produzione dei Mammoth Grinder.

Chiude il lavoro Moral Crux, aperta da un gracchiante suono cupo e da un insieme di corde di chitarra tirate: pronto ad attenderci, un bel riff lentissimo, specialmente se paragonato ai suoi predecessori, ma pieno e vigoroso. Sui toni cupi del pezzo, la voce regna sovrana, impera e trionfa, seduta sul trono di un bel manicomio, con tanto di camicia di forza e pareti imbottite: una degna conclusione, resa da elementi già incontrati nel percorso di Underworlds, ma riadattati, mischiati e rinnovati di volta in volta.

Underworlds sicuramente è una bella bomba a orologeria, pronta a esplodere al minimo sobbalzo: in un secondo l'intera gamma di sentimenti rabbiosi, si concentra, scoppia, annichilendosi e distruggendo così l'intera realtà attorno a sé. Le sonorità e le dinamiche non saranno niente di troppo originale, ma lasciano in mano qualcosa, trasmettono costantemente sentimenti e sensazioni ben precise, con la bava alla bocca e i denti serrati in una smorfia bestiale, demoniaca e selvaggia. Sicuramente una nota di merito va alla decisione di mantenere la durata di ogni singolo pezzo su tempi piuttosto ristretti, compresi indicativamente, fra 1 e 3 minuti: si evita così di stancarsi e di annoiarsi, mantenendo sempre vivo e attivo lo spirito guerriero, che muta a ogni cambio di traccia, ma che non accenna a perire. Con i Mammoth Grinder ci si sfoga della rabbia, nell'energia repressa e nella violenza, e lo si fa godendo di una qualità impeccabile a livello di suoni, ma soprattutto grazie a una semplicità sorprendente: è proprio questa, forse, la qualità più apprezzabile del gruppo, il fatto di saper innescare una bomba, servendosi di due pietre focaie, anziché di un lavoratissimo accendino Zippo.