Ispirato a fatti realmente accaduti. Ed, Henry e Phil sono studenti in viaggio verso il Messico e verso un weekend di divertimento ed eccessi. I tre incappano però in una setta che pratica sacrifici umani, i cui adepti si aggirano alla ricerca di vittime da immolare. Gli americani sono le prede predilette, capaci di rendere i rituali veramente potenti, grazie alle loro grida di terrore, durante l’agonia che li condurrà dritti tra le braccia della morte. Quando la polizia si rifiuterà di intervenire, i ragazzi capiranno di essere in trappola; nessuno li aiuterà, a parte un ex poliziotto. Ma potrebbe essere già troppo tardi per tutti loro… il viaggio verso l’inferno è iniziato.

Borderland - Linea di confine è un film che scivola via senza lasciare tracce particolarmente significative nell’immaginario di chi guarda. A tratti è anche francamente noioso, nonostante utilizzi la camera a mano per soggettive molto coinvolgenti, all’interno di segmenti di montaggio velocizzato e dall’effetto semi-epilettoide (si pensi alla lunga serie di sequenze del luna-park, che rendono bene lo spirito sensual-trasgressivo che i tre protagonisti stanno vivendo in quel momento). La scena iniziale è molto potente e invita ad aspettarci ulteriori salti qualitativi dello stesso o maggiore calibro. Il buon giorno si vede dal mattino, no? Invece, per almeno tre quarti d’ora, le soggettive tremolanti e sincopate si alternano a lunghi piani sequenza statici, dai quali lo spettatore non vede l’ora di uscire, perché “magari poi succede qualcosa di interessante”, come la prima sequenza ci ha mostrato. Per fortuna, in questo gioco di regia di cui non si capisce davvero il senso, vengono a rinfrancarci una luce e una fotografia desaturate, ma al contempo calde e avvolgenti di uno Scott Kevan che sa far bene il suo mestiere, soprattutto nel rappresentare l’environment antropologico della società messicana, anche nell’espressione di una religiosità magico-fideistica che sconfina con la perversione e la sociopatia. Tim Galvin, che aveva già lavorato alle scenografie in Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991), genera spazi angosciosi e soffocanti al punto giusto e tali da dare risalto al gioco di luci scabre cui lavora Kevan. Tutto questo per dire che l’elemento estetico-visivo è molto importante nel dare fibra e spessore anche contenutistici a questo film, che se guardato solo dalla prospettiva dello script e della resa registica, non ci dà invece molte emozioni. E’ la visione d’insieme che infatti lo rende interessante, anche perché se osserviamo la storia in quanto tale, non siamo molto distanti da un normalissimo “rape and revenge” sulle orme di Hostel. Anzi, Borderland a una prima occhiata superficiale è appunto un Hostel declinato al maschile, con i tre amici in cerca di piacere ‘macho’ in terra straniera, che trovano però subito chi taglierà le gambe (in senso stretto e metaforico) a questo desiderio. Niente a che vedere con la profondità narrativa e psicodrammatica di altri film che trattano simili soggetti (vedi ad esempio il bellissimo Donkey Punch (2008) dell’inglese Oliver Blackburn, di tutt’altro e più elevato tenore). Anche il cast assume su di sé una non secondaria funzione di “scenografia interpretativa”, di impalcatura recitativa che sostiene e innerva efficacemente una storia in sé scontata. In particolare Marco Bacuzzi (Gustavo) profondamente ben calato nella parte del cattivo, anzi cattivissimo di turno, strabordante una violenza psicotica selvaggia e senza freni, che uno non vorrebbe mai trovarsi davanti. Nonostante gli inevitabili rimandi associativi agli stilemi del “torture-porn” helirothiano, peraltro ormai scontato, superato e da mettere definitivamente in soffitta come un’inutile ferro vecchio, Borderland si pone comunque come oggetto innovativo nel piatto panorama horror-cinematografico statunitense. Soprattutto se guardato a distanza come un dipinto, rimanda una sua coerenza e grazia estetica d’insieme, che certo si perde se ci avviciniamo e ne smontiamo criticamente i dettagli tecnici. Ma appunto senza avvicinarci troppo, possiamo dire che si merita senz’altro tre stelle.