Come le è venuta l'idea di Martyrs?

All’inizio l'impulso è arrivato da Manuel Alduy di Canal+. Cercava dei progetti per la sua collezione di film di genere, e mi fece sapere, attraverso il mio produttore, Richard Grandpierre, che il mio lavoro gli piaceva. Con Richard, abbiamo colto l'opportunità di lanciare un progetto in un lasso di tempo abbastanza breve, mentre ne sviluppavamo un altro più difficile da finanziare. Ho scritto la sceneggiatura in fretta e furia, non ci ho messo più di quattro mesi. Sapevo anche che una sceneggiatura come questa, sviluppata su un binario ben preciso, mi avrebbe lasciato un grande margine di manovra, e che non avrei dovuto preoccuparmi dei diktat televisivi. Era una vera libertà. Canal+ è rimasto l'ultimo canale in Francia ad autorizzare questi progetti, è un’attività preziosa.

E la storia, da dove nasce?  

L’immagine di partenza, era questa "figura della vendetta", l'intrusione improvvisa di questa ragazza che, arma alla mano, viene a sconvolgere la vita di una famiglia come tutte le altre. Partendo da questa semplice idea, mi sono posto le domande di base "Perché lo fa?", "Che cosa è successo?", "Si sbaglia?", e la storia si è scritta quasi da sola. E’ stato un processo molto intuitivo...     

Perché fare un film tanto violento? Vuole turbare il pubblico? Esorcizzare la paura della morte e del dolore?   

Innanzi tutto, mi sembrava il mezzo più onesto e più integro di raccontare questa storia. Martyrs parla di persone che si fanno male. Chi ha sofferto si vendica e a sua volta fa soffrire gli altri. I supposti boia diventano vittime e al contrario, non si sa più dove comincia il male, non si sa più chi è il "martire"... Mi piaceva l'idea di fare un film inquietante, di fronte al quale lo spettatore perde i propri riferimenti morali e non sa più chi sostenere e con chi identificarsi. Non mi interessa turbare, ma occorreva veramente che ci fosse una sensazione fisica, organica, del dolore inflitto, altrimenti si sarebbe persa ogni idea della gravità di questa violenza,  ciò l'avrebbe resa "gadget" e avrebbe reso il film un oggetto abbastanza ambiguo... Io non volevo allontanarmi dai miei personaggi. Volevo che ogni colpo fosse veramente doloroso, non per qualche discorso morale sulla rappresentazione di questa violenza, ma perché è l'argomento stesso del film: in fondo, in fondo alla violenza, c'è qualche cosa? C'è un senso nel trascorrere il nostro tempo a soffrire e a fare soffrire l'altro?  

E poi, la nefandezza del film viene dall’umore che avevo quando l'ho fatto. Le circostanze della mia vita erano tali che mi sentivo abbastanza solo. Sentivo, un sentimento diffuso che mi faceva alquanto soffrire, che la nostra epoca era una tra le più brutali mai vissute. Ma si trattava di una brutalità molto particolare perché al tempo stesso è nascosta, civilizzata e contenuta nel sistema stesso che ci fa vivere insieme; è tenuta nascosta da ciò che solitamente si chiama la "nostra Civiltà", ma è là, onnipresente, e mi colpisce nel profondo.

Abbiamo bisogno di film che rimandino questo orrore contemporaneo, che ne facciano la materia che amoreggia con la tentazione del nulla, che si assumano l’onere di essere portatori di cattive notizie... È un progetto che non mi sembra né privo di nobiltà, né privo di necessità.

Girare un film tanto duro come Martyrs la mette in uno stato particolare?   

Non proprio, perché la gioia di fare domina tutto. Voglio dire, è il mio secondo film, vivo ancora nello stupore della fortuna di fare questo mestiere. E poi, è vero che il film ci ha fatto passare dei momenti particolari, abbastanza scomodi. La mia energia era abbastanza negativa, riuscivo a essere noioso e tirannico. Non è facile chiedere a un'attrice di piangere sul serio tutto il giorno, di esigere che si faccia male. Per farlo c’è bisogno di una certa abnegazione, perché nella vita, ho comunque abbastanza inibizioni... La ripresa era abbastanza grezza. La cosa più difficile sul set è stata combinare i numerosi effetti speciali, fatti secondo il buon vecchio metodo artigianale, senza perdere l'energia del gioco. Abbiamo girato molto con lunghi piani-sequenza, senza fermare la cinepresa, perché ogni volta che si interrompeva correvo il rischio di perdere qualche cosa di Morjana o di Mylène che non sarebbe tornato.

Era abbastanza stressante. E le mie attrici anche, sono state dei veri soldati. Si credeva in quello che si faceva e nessuno si è lamentato. Anche i produttori mi hanno aiutato lasciandomi in pace, non provando mai a edulcorare i discorsi, e sostenendo il più possibile la realizzazione del film. Ci sono stati momenti divertenti, altri molto duri, improbi, ma nessuno ha detto che era facile fare un film.  

Esattamente, è più facile o più difficile realizzare un secondo film?  

E’ più difficile il primo, per me non c’è alcun dubbio.   

Ho sempre trovato fumosa la teoria della "difficoltà del secondo film." Mi sembra la riflessione di privilegiati che hanno dimenticato l'angoscia del giovane che sbarca a Parigi e che vuole fare cinema senza conoscere assolutamente nessuno. Prima di avere l’eccezionale fortuna di realizzare il primo lungometraggio, sei in uno stato di inquietudine e di frustrazione permanente, sai che statisticamente sono molto poche le probabilità di superare la prova. Sai che è pieno di persone con molto più talento di te a voler fare la stessa cosa e hai quella vocina nell’angolo remoto del cervello, la voce della ragione, che non smette di allarmarti sul fatto che la tua scelta è molto incerta e che non bisogna sognare troppo. Dopo il primo film, sei già del mestiere, in ogni caso agli occhi degli altri, la tua rubrica si riempie, si avviano nuove relazioni e si creano nuove reti,  niente è più come prima.   

Come ha affrontato le riprese di Martyrs?   

In maniera opposta al mio film precedente. Ho rifiutato ogni sorta di story-board, ogni preparazione eccessiva che avrebbe bloccato una volta per tutte la mia idea di film. Avevo un’idea generale molto precisa del film, ne conoscevo l’umore, la respirazione, ma la creazione scena per scena è rimasta molto aperta. Volevo lasciare intervenire il reale, obbligarmi alle scelte dell’ultimo minuto, navigare a vista alla mercé di ciò che era possibile e impossibile fare. In generale si fa sempre così, ma in questo caso ho spinto molto in avanti questo principio. Volevo fare un film viscerale, un film in cui la storia si svolge come se tutto accadesse in diretta, lì per lì, un film che non si "dedica al farsi vedere." Volevo liberarmi dell'ossessione della forma, della bella immagine. Per questo abbiamo girato molto con la cinepresa a mano, improvvisando il più possibile, con degli impianti luce abbastanza semplici che permettevano agli attori di andare dove sembrava bene a loro. Ho avuto paura con questo film, perché, per natura, ho l'ossessione del controllo. Ma ho imparato davvero molto.

Perché ha girato in Canada?  

Per ragioni pragmatiche di co-produzione.   

Una volta sul posto, l’abbiamo integrato al progetto artistico. La luce del Quebec è proprio singolare, porta al film un'emozione in più. Il cielo ha delle tinte di grigio che non ho visto altrove, anche i bianchi sono particolari. Questo mi riportava alle sensazioni che avevo conosciuto guardando i film di genere canadesi fatti negli anni 70-80. David Cronenberg certamente, ma anche altri realizzatori meno noti come William Fruet o George Mihalka. Hanno fatto dei film di serie B che amo in modo nostalgico e che rendono questo paese mitologico.

Molte attrici hanno rifiutato di lavorare in questo film, perché?   

Perché è violento, perché è assimilato a un genere dubbio, perché il progetto non è sentito come “ricompensa”... È difficile combattere i pregiudizi. Ho avuto spesso l'impressione di proporre un film pornografico... Francamente, l’ambiente del cinema è estremamente conservatore, molto conformistico. Il carrierismo prudente è una regola largamente seguita, come in qualsiasi altra impresa, e sembra assolutamente normale, mentre in fondo, nell’arte, è una cosa orribile!

Perché ha scelto Mylène e Morjana alla fine?   

Per Mylène, è stato pressoché automatico. Ha un vero e proprio gusto per i progetti “borderline”, ha quella energia di giovane donna che ambisce a soppiantare le anziane, a provocare. Sapevo che avrebbe accettato di spingersi in universi un po’ al limite... E poi, ha una cinegenia straordinaria, un carisma formidabile. Quando entra in un locale, la temperatura cambia, le persone cambiano atteggiamento. Se non lo senti non puoi fare il regista... E poi ha un’energia naturale che tende al “nero”. Ha qualcosa di pericoloso, oscuro, è piena di appassionanti contraddizioni... Sul set, quando entrava nel personaggio incazzandosi come una bestia per le necessità sceniche mi faceva davvero paura, mi piaceva ma allo stesso tempo temevo che accadesse qualche incidente. Non si sentiva volare una mosca, faceva paura perfino ai tecnici che comunque erano preoccupati per lei, si aveva veramente una sensazione di catastrofe imminente, era straordinario, non lo dimenticherò mai.   

Per Morjana, non abbiamo fatto tutto in un attimo. A seguito della rinuncia tardiva di un'attrice, sono dovuto ripartire con il casting. Ho visto molte attrici, non trovavo quella giusta.  E poi un'amica mi ha consigliato di vedere il film Marock in cui Morjana recitava nel ruolo della protagonista. Ed è ciò che ho fatto. L'ho trovata intrigante, di una stranezza singolare, molto differente dalle attrici "parigine". Sentivo che giocava d'istinto. L’ho incontrata e, in cinque minuti, ho deciso che era quella giusta. Non le ho nemmeno fatto fare provini. Ero sicuro. Speravo solo che non fuggisse dopo avere letto la sceneggiatura! Invece lei ha avuto la reazione contraria. Voleva muoversi subito, era pronta, se ne fregava completamente dell’immagine e allo stesso tempo non appariva isterica.

Nella vita, la trovo sconvolgente, un personaggio che non si può ridurre a qualcosa di semplice. E’ "esotica", nel senso letterale del termine. Vale a dire differente, diversa. E poi, è luminosa, e questo era essenziale per me, perché il suo personaggio è evidentemente quello di una santa...

Il film è molto veloce, gli sviluppi sono costanti...   

La suspense, è la costante del film. Martyrs è un film totalmente narrativo. Si rimane con il dubbio, ci si interroga fino alla fine. Spero che gli spettatori ci mettano letteralmente 1 ora e mezza a scoprire tutto...

Quale sarebbero, per lei, le reazioni ideali del pubblico di Martyrs?   

Amerei che si commuovesse... Non sono pazzo, so bene che alcuni non potranno andare oltre un certo livello di violenza, so bene che negheranno di andare là dove il film cerca di portarli... Sono così, non posso farci niente, fa parte del progetto. Capisco molto bene che lo si possa trovare insopportabile. Naturalmente mi aspetto delle reazioni estreme, talvolta tanto violente verso di me almeno quanto lo è il film verso il pubblico. Forse è vero che è un film malato. Una malattia giunta al suo stadio terminale... Una parte del pubblico me ne vorrà forse... Trovo questa prospettiva molto interessante.