Ciao Giorgia, benvenuta su Horror Magazine. Japan Horror è il tuo ultimo libro che analizza, come suggerisce il titolo, il cinema horror giapponese in un percorso tematico ben preciso. Cinema horror giapponese che, con alcune pellicole (molte anche riprese dal cinema americano), è diventato famoso anche in Italia. Ci racconti com’è nato questo progetto?

Ciao Gianfranco, grazie per la tua cortese ospitalità. Com’è nato Japan Horror… da una folgorazione direi. E’ qualche anno che purtroppo passo periodi in cui non riesco a dormire e grazie a Fuori Orario, in una delle mie notti insonni, mi sono imbattuta in Tetsuo. Dopo pochi minuti ho spento la TV. Per la prima volta dopo tanto tempo non riuscivo a sopportare la visione di un film. Mi era già capitato con Seven. All’epoca avevo diciassette anni e, nonostante il film non fosse un horror, ricordo di aver avuto delle difficoltà. Ricordo di aver chiuso gli occhi. Credo che esista una soglia del visibile e che tale soglia sia assolutamente personale, di fronte a essa ci sono due alternative: fermarsi o andare oltre. È evidente che io mi sia spinta oltre; dovevo capire. Per quanto inizialmente mi fossi sentita disturbata dalle prime sequenze di Tetsuo, non potevo non considerare il fatto che in quelle stesse immagini risiedesse qualcosa di attraente, una sorta di estetica della sofferenza… Dopo qualche giorno ho recuperato il film, l’ho guardato per intero e mi si è aperto un mondo. L’immaginario di Tsukamoto mi ha letteralmente folgorata, a quel punto ho sentito la necessità di saperne di più. Ho guardato, letto, studiato e ho iniziato a scrivere. Il lavoro ha iniziato a prender forma sotto la guida della cattedra di Teoria e tecniche del linguaggio cinematografico della Sapienza poi, pian piano, si è trasformato e arricchito grazie anche ai miei periodici viaggi in Giappone, grazie ai quali ho avuto modo di capire meglio il contesto socio culturale in cui nasce una certa cinematografia di genere. Infine il tutto ha trovato asilo nella collana Frizzz della Tunué ed eccoci qua. 

 

Come nasce la tua passione per l’horror? Nel libro parli di film molto violenti e splatter.

Che genere di film prediligi personalmente?

La mia passione per il cinema, e per l’horror in particolare, nasce da bambina. Il primo film che ricordo con terrore, e anche in questo caso non si tratta di un horror, fu la pellicola del’53 La guerra dei mondi. Avrò avuto non più di cinque anni e della trama del film non capii un granché, ma non riuscivo più a togliermi dalla testa l’enorme occhio telescopico delle astronavi aliene. A casa mia quell’occhio divenne immediatamente motivo di ricatto, grazie al solo evocarlo facevo tutto: mangiavo, dormivo anche quando non avevo sonno, smettevo di piangere… molti bambini hanno l’uomo nero, io avevo l’occhio.

La cosa però mi puzzava…perché mi faceva paura qualcosa che scaturiva da un contesto che mio padre sosteneva essere finzione? Non ci volle molto perché il tutto diventasse un gioco: i miei genitori mi “minacciavano” con un’immagine finta e io facevo finta di crederci. Se ci pensi è quello che accade nel cinema ogni volta che ci sediamo in una sala, è quel particolare carattere semiotico chiamato sospensione dell’incredulità. Ecco svelato il meccanismo!

L’horror mi ha sempre attratta e i miei hanno avuto l’intelligenza di non censurare questa mia passione educandomi alla visione del testo filmico. Grazie a loro, e in particolare a mio padre, ho imparato fin da bambina a decostruire il genere grazie allo svelamento dei meccanismi diegetici e profilmici. Questo mi ha permesso di avvicinarmi all’horror senza subirlo. Mi ha permesso di entrare in contatto con la paura, sentimento dal quale ormai si tende a fuggire trascurandone l’importanza antropologica: la paura è funzionale alla sopravvivenza. Le favole che ci raccontano da bambini non sono meno paurose di molti film horror, ma ormai le vere favole non si raccontano neanche più. Al contrario di quanto si possa pensare, conoscere i meccanismi di un genere non ti toglie il piacere di goderne, di emozionarti, di provare paura, sofferenza o tensione. Un buon film horror è come un giro sulle montagne russe, hai paura ma quando la giostra si ferma è tutto finito!

L’horror ovviamente non è la mia sola passione, amo il cinema e questo fa di me una fruitrice onnivora. Adoro i film storici, mi piacciono i thriller, le commedie, la fantascienza (ho un debole per quella distopica ovviamente) e i film d’animazione. Guardo praticamente tutto, tranne il cinepanettone natalizio e forse le saghe fantasy (ho deciso che i vari Potter e Narnia non mi avranno). Credo che sia questa la mia personalissima soglia del visibile che non intendo attraversare!

 

In Giappone esiste una vera e propria tradizione del racconto horror. Ci puoi spiegare brevemente da dove nasce e come si sviluppa?

È vero, in Giappone il racconto horror ha radici antiche che affondano nella cultura e nella religione. In particolare la convergenza tra Shintoismo, Buddismo e Taoismo ha contribuito alla creazione di una variegata cosmogonia di creature, demoni e spiriti. Nel periodo Edo molte storie di questo tipo, appartenenti alla cultura popolare, iniziarono a formalizzarsi in quelli che oggi sono considerati i racconti classici dell’horror giapponese. Questa formalizzazione di genere avvenne grazie alla figura dei rakugoka, narratori specializzati che raccontavano storie (non solo horror) provenienti dalla cultura orale. Molti di questi racconti erano dedicati agli yûrei, spiriti appartenenti alla tradizione scintoista. Lo yûrei è uno spirito tormentato, che non si separa dal mondo dei vivi perché sa di avere ancora qualcosa d’incompiuto da portare a termine. Non sempre sono spiriti malevoli ma spesso si tratta di spiriti femminili. Tra i rakugo più famosi riguardanti gli yûrei ci sono le terribili storie di Oiwa e Okiku, vittime della barbarie maschile.

Il racconto per immagini poi, a partire dalla metà del XII secolo, ha contribuito alla diffusione dell’immaginario orrorifico fino ad avere un forte slancio proprio nel periodo Edo dove, assieme ai rakuoga, molti artisti dell’ukiyo-e hanno contribuito a rappresentare il lato oscuro della cultura nipponica. Tra questi c’è ovviamente Hokusai, considerato il padre del manga. Accanto a racconti e stampe anche il Kabuki, con il suo filone di rappresentazioni del grottesco, ha lavorato per diffondere parte di quell’immaginario che ha trovato infine nel cinema la sua declinazione migliore con i kaidan eiga. Il cinema horror giapponese nasce proprio grazie alla trasposizione di racconti classici tanto che, per esempio, il personaggio di Oiwa compare su pellicola già nel 1912.

Quelli di Oiwa e Okiku non sono gli unici esempi di fantasmi vendicativi al femminile. Questo è stato l’input che mi ha portata a svolgere un’indagine più approfondita sul ruolo della donna all’interno della narrazione horror e, più in generale, all’interno della società giapponese.

In Japan Horror prendi anche in esame il manga. Qual è la relazione che lega questo media al cinema?

Innanzitutto il linguaggio. Manga e cinema mantengono in Giappone una forte comunanza linguistica. Sono il personaggio e i suoi sentimenti a essere alla base della narrazione, non tanto i nessi causali fra avvenimenti come invece avviene nella narrazione occidentale, sia fumettistica che cinematografica. In secondo luogo manga e cinema sono in una relazione di mutuo scambio più o meno da sempre. In Giappone l’industria culturale è molto mobile e le contaminazioni fra media fanno parte della consuetudine. Molte sono state negli anni le trasposizioni dal manga al grande schermo e molti mangaka hanno prestato la loro arte al cinema realizzando film di forte impatto. Hideshi Hino è uno di questi, già noto al mondo del manga per numerosi titoli horror, passa al cinema negli anni ’80 dirigendo i primi episodi della serie Guinea Pig. I suoi manga continuano ad affascinare molti registi tanto che è in uscita Theater of Horror, una raccolta di sei mediometraggi tratti dai racconti di Hino e diretti da svariati registi tra cui Koji Shiraishi.

Ma non solo, cinema e manga si sono fatti portatori di quel malessere giovanile emerso in Giappone alla fine degli Anni’60. È proprio in quegli anni che il manga rinnova stile e contenuti, introducendo l’horror come uno dei generi di rottura di quel periodo. Questo ha contribuito a popolare l’immaginario cinematografico di forme dello straniamento. Sul finire degli Anni’60 avviene un vero e proprio scollamento generazionale, una frattura insanabile fra tradizione e innovazione che ancora oggi pesa sulla società nipponica. Da allora cinema e manga continuano a dialogare sull’argomento cercando di restituire un’immagine nella quale i giapponesi possano riflettersi, per riflettere e ripensare i propri schemi sociali. Pellicole come Battle Royale, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Kôshun Takami (già noto al grande pubblico sottoforma di manga) e Suicide Club dal quale è stato tratto il manga Jisatsu Circle, possono dare la dimensione di come manga e cinema si contaminano nel tentativo di testimoniare quel sentimento di smarrimento e alienazione del vivere in società. L’horror in questo ha un grande potere: può mostrare ciò che non vorremmo vedere e noi, in quella forma, siamo disposti ad accogliere ciò che quotidianamente siamo soliti negare. 

 

Un argomento molto interessante, espresso in Japan Horror, è l’attrazione che l’horror esercita nel pubblico femminile. Ci spieghi il rapporto che lega l’horror alla donna, in Giappone? E di conseguenza il sesso nell’horror, con la “moda” dei cosidetti “Torture porn”?

Credo che l’horror sia uno di quei generi, insieme alla fantascienza, che più di altri è in grado di incarnare e restituire il non detto, il rimosso culturale. Sto parlando di quegli elementi fondanti che contribuiscono alla formazione identitaria di un paese, elementi di cui spesso parlare apertamente è considerato sconveniente. Il ruolo della donna all’interno della società giapponese è uno di questi. La donna occupa una posizione ben definita nella struttura sociale nipponica, una posizione che contribuisce al benessere del collettivo. Le cose però, seppure in minima parte, stanno cambiando e questo è avvertito come minaccia all’interno di un sistema essenzialmente androcentrico. 

A mio avviso l’horror incarna tutto questo presentando la donna nel doppio ruolo di vittima e carnefice. Il ruolo di vittima testimonia un contesto sociale che dal punto di vista dell’emancipazione femminile ha compiuto ben pochi passi tanto che, all’interno della sfera familiare e lavorativa, vige ancora una netta supremazia del maschile sul femminile. Negli slasher prima, e nei torture porn poi, la donna è vittima e non è un caso che sia proprio tramite la sua sessualità che la violenza viene enfatizzata.

Il secondo ruolo, quello di carnefice, rappresenta l’istanza di rinnovamento e il tentativo di dilaniare un sistema sociale che appare ormai anacronistico agli occhi della maggior parte delle stesse giapponesi. L’icona della bambolina ubbidiente, ideale di molti uomini giapponesi, viene allora messa in discussione da un regista come Takashi Miike che coglie in modo magistrale le istanze del mutamento. Miike rappresenta una donna dall’identità opalescente che, dietro la maschera sociale della moglie perfetta, nasconde una ferocia inaudita che poco si confà all’immagine di donna che i giapponesi sono soliti considerare.

A mio avviso questa comunanza fra sessualità e horror, oltre a rappresentare quanto detto, rivela una similitudine di codici linguistici all’interno del testo filmico. In sostanza lo splatter e il porno percorrerebbero linee narrative analoghe. In quelli che vengono oggi definiti come torture porn nulla viene lasciato all’immaginazione. Tutto viene impietosamente mostrato e le torture si susseguono senza una trama forte, capace di tenere assieme in modo coerente gli eventi rappresentati. Il racconto è accessorio, la mostra è essenziale. Esattamente quanto accade nel porno. Lo spettatore è lì per vedere ciò che già conosce, anche l’epilogo è noto. La morte o l’orgasmo, o tutti e due stando a ciò che mostra Grotesque (Kôji Shiraishi) diventano la conclusione attesa e prevedibile di un vuoto susseguirsi di azioni. 

Nel libro affronti anche il concetto di “mutazione” e della pesante eredità giapponese del dopoguerra con la bomba atomica. Quanto hanno pesato questi elementi nella filmografia horror giapponese?

Sicuramente l’eredità di un evento orribile come quello dell’atomica è innegabilmente presente in molta della cinematografia giapponese, non solo horror. Il cinema ha un grande potere catartico e i giapponesi hanno saputo sfruttare al meglio questa sua caratteristica a partire dalla comunicazione con le nuove generazioni. Basta pensare all’Astro Boy (Atom) di Osamu Tezuka o allo stesso Gozzilla (Gojira) di Hishirô Honda. In occidente molti pensano che Gojira sia un horror per adulti, in realtà è un film per bambini. E’ a loro che dopo la fine della guerra bisognava raccontare la realtà di un mondo diverso, dove nulla sarebbe più stato come prima. Così il cinema giapponese si apre al tema della mutazione nel tentativo di spiegare il mutamento alle nuove generazioni. Si assiste quindi a un prolificare di creature mostruose, figlie dirette dell’atomica. Nascono i kaiju eiga, ovvero i “film sui mostri” e creature come Matango, Mothra e Gamera diventano i nuovi idoli dei ragazzini del dopoguerra.

Ma il tema della mutazione all’interno del cinema nipponico non si esaurisce unicamente nella connessione con l’atomica. Più in generale la tecnologia è avvertita come corpo estraneo rispetto alla cultura e ai ritmi di un paese che ha dovuto adeguarsi a essa nel timore di soccombere al colosso occidentale. Questo getta le basi per un rapporto bivalente con la tecnologia, un misto di passione e rifiuto nei confronti di ciò che ha contribuito a cambiare il paese dal suo interno, penetrando nelle maglie più intime del corpo sociale.

Uno dei registi che più ha lavorato su questo aspetto è senz’altro Shinya Tsukamoto che, dagli anni ’80 in poi, ha esplorato l’argomento restituendo allo spettatore tutta la vulnerabilità dell’uomo di fronte alla tecnologia e a una realtà urbana ormai autonoma e inglobante. L’uomo muta suo malgrado come conseguenza di una sorta di selezione naturale, dove l’organico cede il passo alla supremazia del metallo. Tutto questo s’inserisce in una corrente underground che si contamina con la fantascienza, il cyberpunk, lo splatter e il gore, e che non può fare a meno di prescindere dallo sguardo dei molti registi occidentali tra cui forse il più rappresentativo rimane David Cronenberg.

Tsukamoto non è il solo regista giapponese ad aver focalizzato la propria attenzione sul tema della mutazione, si può affermare anzi che questa riflessione sia ancora aperta e che tenda a riproporsi a fasi alterne grazie anche al forte contributo proveniente dal mondo degli anime.  

Recentemente sono stati rifatti alcuni film giapponesi (The Ring, The Grudge) dal cinema occidentale. Ma l’influenza non è solo monodirezionale. Come si apprende nel tuo libro, i giapponesi hanno già, a loro tempo, preso molto dalla cultura occidentale. Cosa ne pensi

di questo scambio reciproco?

Lo scambio culturale produce ricchezza, sempre. Questo è vero solo a patto che sia uno scambio autentico e alla pari. Effettivamente i giapponesi hanno interiorizzato una serie di archetipi della cinematografia horror occidentale e questo ha di fatto contribuito ad arricchire il loro già vasto immaginario. Inoltre nelle sale giapponesi sono molti i film stranieri, soprattutto americani, a essere regolarmente proiettati. Questo non per via di una scarsità nella produzione nipponica ma perché, a torto o a ragione, il cinema americano è comunemente considerato un punto di riferimento mondiale.

In occidente questo non accade perché il pubblico non viene educato a misurarsi con impianti narrativi basati sull’attesa anziché sull’azione, caratteristica che contraddistingue buona parte del cinema nipponico. Quindi si avverte la falsa necessità di dover girare nuovamente un film come The Ring in modo da mettere lo spettatore a proprio agio, convinti che non sia in grado di andare oltre. Il risultato a mio avviso è che, a fronte di una migliore fotografia, di un ritmo narrativo più usuale e di attori dai volti familiari, si perde quell’effetto straniante tutto giapponese dato dall’apparizione ipnotica di Sadako. Samara non ha la stessa forza, non riesce a essere realmente agghiacciante. E non ci riesce perché in qualche modo siamo abituati a lei, il suo volto, la sua figura, non è poi tanto distante da quella di un’altra ragazzina che negli anni ’70 popolò gli incubi di molti spettatori. Samara non è poi così diversa da Regan di L’Esorcista. La stessa cosa accade con The Grudge dove anzi la produzione ha pensato di fare un passo in più: affida il film al regista giapponese Takashi Shimizu (già regista del Ju On: The Grudge giapponese), ma riserva il ruolo di protagonista a Sarah Michelle Gellar eroina della serie Buffy. In questo modo lo spettatore medio non viene turbato, si sente a proprio agio, continua ad avere punti di riferimento conosciuti entro i quali muoversi. Ma il cinema vero è quello che crea turbamento, quello capace di scuotere lo spettatore. Non lo dico io, lo diceva Éjzenštejn molto prima e molto meglio di me.

E così il cinema occidentale perde un’occasione: quella di far entrare nelle proprie maglie delle istanze di rinnovamento che non siano solo narrative ma anche stilistiche ed estetiche.

Questo processo di riscrittura a mio avviso impoverisce il cinema appiattendolo su percorsi fin troppo calcati e conosciuti. Mi auguro che questo atteggiamento cambi e che lo scambio diventi realmente reciproco e culturalmente stimolante. 

Come hai lavorato con i tipi di Tunuè per il quale il libro è stato pubblicato? Ti hanno suggerito tagli, modifiche, un’impostazione generale?

Assolutamente nessun taglio. Di questo devo ringraziarli. Ho lavorato con la massima libertà potendo inserire tutto quello che ritenevo opportuno. Quando ho presentato il libro in casa editrice, aveva già una sua struttura ben definita ma mi sono state mosse delle giuste osservazioni: il testo non era sufficientemente aggiornato e poteva essere ulteriormente ampliato dal punto di vista tematico. Ho quindi lavorato ampliando e aggiornando quella che secondo l’editore era già una buona base di partenza. Così il libro ha assunto una nuova struttura, con un’inversione dell’ordine dei capitoli e un ampliamento degli stessi nel tentativo di far percorrere al lettore un viaggio coerente all’interno delle varie tendenze dell’horror nipponico. Quando lavori sull’analisi di testi (filmici in questo caso) appartenenti a una cultura così diversa, la difficoltà maggiore sta proprio nella corretta interpretazione dei riferimenti culturali in essi inseriti. Per questo devo ringraziare la mia amica e collega Midori Yamane e la sua famiglia, che hanno dimostrato una pazienza e una cortesia del tutto giapponese nel rispondere alle mie pressanti domande. Domande che a volte hanno travalicato la sfera filmografica per sondare aspetti della vita quotidiana, i ricordi personali legati alla situazione dell’immediato dopoguerra e gli spazi del femminile all’interno della società.

Senza il loro aiuto sarebbe stato difficile muoversi così a proprio agio all’interno di concezioni così diverse. 

Che manga e film horror consiglieresti all’appassionato che si voglia avvicinare all’ horror giapponese?

Nel manga di materiale interessante ce n’è parecchio. Gli autori che preferisco sono senza dubbio Hideshi Hino e Suehiro Maruo. Del primo consiglierei sicuramente Visione d’inferno (Jigoku hen) e Hell Baby (Kyôfu Zigoku-shôjo), del secondo invece, assolutamente, Il vampiro che ride (Warau kyûketsuki). Non sono una passeggiata, l’impatto è forte ma vale la pena. Andando più sul classico è interessante anche Kitaro dei cimiteri (GeGeGe no Kitarô) di Shigeru Mizuki, un manga sicuramente più “morbido” ma che ben raccoglie molta della tradizione giapponese sull’horror. Sulla commistione tra sesso, horror e fantascienza, sicuramente uno dei grandi classici è Urotsukidoji di Toshio Maeda.

Per quanto riguarda il cinema, beh, questo dipende molto dalla personale soglia di tolleranza al genere… senz’altro Takashi Miike con Audition. E’ un film che spiazza, totalmente. Ma ha un’eleganza narrativa ineguagliabile. Poi sicuramente il Tetsuo: The Iron Man di Shinya Tsukamoto, ma non solo. Anche Il ragazzo dal palo elettrico (Denchu kozo no boken) è interessante, perché in questo film Tsukamoto propone una rivisitazione della figura occidentale del vampiro all’interno della logica straniante della mutazione. E infine, sempre di Tsukamoto, Il muro (Haze). Attenzione però, perché i film di Tsukamoto vanno visti con calma, quando siete mentalmente rilassati e fuori splende un bel sole caldo! Un approccio più rilassato all’horror giapponese potrebbe iniziare con Kwaidan di Masaki Kobayashi, un film ad episodi che racconta storie di fantasmi ambientate nel periodo Edo. Sicuramente Ringu di Hideo Nakata (possibilmente da vedere prima del remake americano) e Ju On: The Grudge di Takashi Shimizu (assolutamente da vedere al posto del remake americano!). 

Ci puoi parlare dei tuoi progetti futuri e di cosa ti stai occupando attualmente?

Nel mio futuro imminente c’è un trasloco che mi aspetta a braccia aperte, il secondo da nove mesi a questa parte. La qual cosa blocca un po’, anche se solo temporaneamente, la mia visuale sulle prospettive future!

Scherzi a parte al momento sto lavorando come tutor e redattore nella sezione manga del portale della DeAgostini ArtCafé e la cosa mi porta via molto tempo perché il contatto diretto con gli utenti, pur essendo estremamente stimolante, dà il suo bel da fare. Inoltre continuo a occuparmi della gestione dei rapporti con la Tokyo Animator Gakuin per la Scuola Internazionale di Comics. Sono ormai cinque anni che porto avanti questa collaborazione con la scuola giapponese e la cosa sta dando ottimi risultati. Questo ci ha permesso non solo di offrire ai nostri studenti una borsa di studio presso la Gakuin ma da quest’anno siamo pronti a offrire un corso di specializzazione sul manga direttamente a Tokyo.

A parte questo dopo il trasloco vedremo, di cose in ballo ce ne sono. Sicuramente continuerò a occuparmi di horror giapponese all’interno di un nuovo progetto, ma al momento non posso dirti di più. A Marzo la cosa dovrebbe diventare ufficiale. Mi piacerebbe continuare a scrivere di cinema spaziando fra vari generi narrativi anche se l’horror rimane il mio primo amore e, come tale, impossibile da dimenticare. 

Giorgia Caterini, nata a Roma nel 1978, ha collaborato con autori di fumetto italiani e stranieri alla creazione di art book per il mercato americano in qualità di graphic designer. Tra questi, Eduardo Risso, Saverio Tenuta e Giovanna Casotto. Dal 2002 è direttore didattico alla Scuola Internazionale di Comics e si occupa della gestione degli scambi culturali con scuole estere come l’Icaic dell’Havana e la Tokyo Animator Gakuin di Tokyo. Nel 2007, assieme a Midori Yamane, fonda la Neko no Ashi, agenzia di intermediazione culturale volta a connettere il mercato del manga a quello del fumetto occidentale. Attualmente collabora con la DeAgostini in qualità di redattore e tutor all’interno della sezione manga e anime del portale Artcafè.