Ritengo Le montagne della follia uno dei migliori libri di H.P. Lovecraft.

E non solo perché accennano a un diverso destino dell’umanità, ma perché nonostante si impegni a dare un senso all’orrore disturbante presente in quelle remote regioni antartiche, non riesce a non conquistarci.

Certo, non è comprensibile apprendere dei mille rifiuti che lo hanno funestato agli inizi.

E mi chiedo se fosse troppo moderno per quell’epoca in cui le certezze non erano altro che pietre d’angolo della cattedrale del nostro orgoglio.

Perché in fondo Lovecraft ha da sempre tentato di indagare le radici di questa presunzione umana, non trovando altro che solitudine.

Che dolore e senso di abbandono.

Qui immersi in una recita cosmica, lasciati soli da un creatore che si mostrava raramente a noi, altero e inavvicinabile.

Destinati a rendere ineleggibile il mistero, a adattarsi e a combattere con questo acuto senso di angoscia, di un sentirsi troppo piccoli di fronte al cielo lassù, immobile e remoto.

Lovecraft fu sempre, a parer mio, attratto da questo mondo bidimensionale dell’essere.

Inconsce le paure e coscia la spavalderia, quella che erigeva templi e mieteva successi su successi.

Come in una affannosa corsa per sfuggire alla verità: che verità poteva mai esserci, cosi atroce da mettere in dubbio le certezze umane?

Quella di non essere che un piccolo, infinitesimale tassello in una catena molto più ampia.

Quella che proponeva persino idee e teorie diverse da quelle considerate veritiere.

Civiltà antichissime, più delle datazioni ufficiali.

E una diversa capacità di concepire il tempo, la natura e persino la morale.

Antichi sepolti in una regione antartica, ad esempio.

Città ciclopiche e distorte in attesa del nostro ritorno.

Origini mai immaginate di quella vita che ci è stata donata, o cosi raccontano.

Lovecraft accenna e descrive senza mai forse spingersi davvero oltre il consentito.

Perché quello che interessa a questo libro è il cambiamento scaturito dalla scoperta, non la scoperta in sé.

Gli interessa che sia evidente il senso di tormento e di angoscia per quella strana rivelazione, maledizione capace di distruggere il quotidiano e di partorire la porta a una nuova percezione, laddove l’immaginazione è feroce, libera e selvaggia.

Senza limiti, ostacoli o remore.

Ci interessa comprendere che, una volta capita la vera natura dell’universo nessuno sarà mai più lo stesso.

E ci lascia cosi con quest'inquietudine strisciante e quella strana disturbante città che apparirà nei nostri incubi, o nei nostri sogni.

E così, arriva il mio amato Tim.

Lui che riesce laddove nessun autore horror può: unire il terrore alla poesia.

La malinconia nostalgica al disagio davanti a qualcosa che distrugge il nostro essere umani.

Convinti di avere dalla nostra parte la superiorità dataci da quel dio che non conosciamo e che rifiutiamo di conoscere.

Hive arriva li dove le montagne della follia si ferma.

Va a fondo alla natura della scoperta.

Considera L’Antartide la custode delle nostre origini.

Origini che forse non dovremmo mai conoscere.

Orrori che non dovrebbero mai essere svegliati, e verità che dovrebbero restare congelate nei tempi, affinché smettano di respirare.

E di infettare la nostra sicurezza con i loro cavernosi respiri.

È vero.

Le creature di Hive dovrebbero terrorizzarci.

E le conclusioni a cui giunge Curran disgustarci.

Eppure… esiste una strana poeticità nelle sue frasi, di quegli esseri interstellari dormienti, che ci sognano e ci fanno vedere cose…

E cosa mai può portarci alla follia?

La consapevolezza che non siamo la razza superiore.

Che la nostra tracotanza, quella che ci porta a distruggere il mondo in cui siamo costretti a evolverci, non è altro che la bizza di una creatura sfuggita al controllo del creatore.

Che ogni nostra idea, morale, civiltà, non è altro che una scuola per addestrarci, un giorno, a tornare tra le braccia dei Signori.

Lì, in quella città alveare, a nutrire chissà quale orribile regina delle api.

Hive ci distrugge con la sua sconvolgente grazia.

Distrugge millenni di certezze, ogni conoscenza mostrata con boria.

Ogni idea di specialità, ogni descrizione che ci rappresenta coronati di stelle e gloria.

Ci frammenta a ci rende folli di dolore.

Eppure…

Eppure è dalla distruzione che noi rinasciamo.

Mentre la conoscenza erode quella sorta di predestinazione da animali da cortile, nati da una manipolazione genetica, da una volontà di renderci schiavi, qualcosa risorge dalle ceneri…

È la scintilla che fece rubare a Prometeo il fuoco.

È quella che mai come oggi abbiamo perduto.

Non il libero arbitrio.

Non la volontà di far parte del destino, o di una diversa schiavitù.

Ma la ribellione, quella sacra che portò alcuni angeli a trasgredire l’ordine di Yahve, e portò Eva e Adamo a mangiare la mela.

E in questo mondo che sembra sull’orlo dell’abisso… ci saranno uomini capaci di diventare davvero umani grazie all’atto più esecrato dal potere.

Il no.

Ecco che Hive diventa un vero inno alla libertà.

E un inno al vero essere umano.

Quello che sceglie la strada meno facile, che non china la testa davanti al padrone anche se sa che verrà sconfitto.

Che non permetterà mai a nessuno di arrogarsi il diritto di comandare scelte, anima e pensiero, di manipolare coscienze e di infonderti quel senso di inferiorità che è il vero obiettivo di ogni padrone.

Sfidateli sempre.

Anche se sono millenari, eterni e sfuggenti.

Sempre.

Rifiutando l'intelligenza dell'alveare era morto da uomo, con un senso di sfida nell'anima.

- Tim Curran

Se molti hanno definito Hive la pallida imitazione delle montagne, io lo definisco il miglior sequel mai scritto. Perché potente.

Perché poetico.

Perché moderno.

Perché rivoluzionario.

Perché è semplicemente capace di entrare dentro di te e non lasciarti mai.

Mai.