Francesca Cavallero è nata nel 1982 e ha un dottorato di ricerca in Arti, spettacolo e tecnologie multimediali. Ha vinto il Premio Urania 2018 con il romanzo "Le ombre di Morjegrad", pubblicato nella collana Urania di Mondadori (n.1672, novembre 2019). Nello stesso universo narrativo sono ambientati il suo secondo romanzo ("Il sangue delle madri", Urania Jumbo n.31, maggio 2022) e tre racconti: "Ninfe sbranate" (nell'antologia "Distòpia", Urania Millemondi n.87, luglio 2020), "Dimenticare gli uragani" (in appendice a Urania Collezione n.214, novembre 2020) e "Chora" (nell'antologia "Coloni dell'universo", Urania Millemondi n.96, luglio 2023).

1."Le ombre di Morjegrad" ha ricevuto il prestigioso Premio Urania nel 2018. Qualcuno lo considera il tuo capolavoro. Non è facile a mio avviso districarsi nella trama anche se, alla fine, torna tutto. Puoi condividere con il processo creativo dietro la creazione di questo romanzo? 

È vero, non è un romanzo facile, e anche il processo creativo che lo ha generato non è stato lineare. Devi sapere che il mio amore per la scrittura creativa è nato molto presto, e si è evoluto in modo disorganico, ma sempre prediligendo atmosfere o temi cupi. Per molti anni ho creato "ritratti" di personaggi e "affreschi" di scene o sequenze travolta dall'ispirazione del momento, con l'urgenza di tradurre in parole ciò che germogliava nel mio immaginario e senza preoccuparmi di creare connessioni narrative. Ho riempito decine di quaderni con questi "brani liberi". Mi sono resa conto, poi, che quei personaggi e quelle situazioni, di cui immaginavo ogni dettaglio come se fossero frammenti di un film, ruotavano intorno allo stesso mondo. Parallelamente, mi sono concentrata sulla cura dello stile, perché ogni frase potesse racchiudere il "profumo", la "musica" di quelle scene. Così è nato l'universo di Morjegrad: nel corso di quasi vent'anni di appunti, bozzetti, perfino disegni. È anche per questo che il romanzo può apparire complesso da districare: la trama (che è più di una somma di storie) è cresciuta con me. Nella stesura del romanzo, poiché ogni capitolo è incentrato su un personaggio o due, ho voluto conservare la "voce" che avevo io quando ne ho scritto la prima volta, in modo che il lettore "vivesse" la trama da una posizione molto angolata: per questo, per esempio, il primo capitolo ha tinte molto forti, e la protagonista è piena di rabbia… ho scritto gran parte di quel materiale a circa vent'anni! 

Il mio capolavoro? Francamente spero di no, perché concepisco la scrittura come ricerca e per quanto mi riguarda è un cammino che ho appena intrapreso, soprattutto nella gestione della mia voce stilistica. 

2.Nel tuo secondo romanzo, "Il sangue delle madri", hai cercato di mantenere un approccio più accessibile e leggibile rispetto a "Le ombre di Morjegrad?" Almeno questa è stata la mia impressione. Quali strategie hai adottato per rendere la trama più fruibile senza compromettere la profondità e complessità della storia?

Mi fa molto piacere che si sia notato un cambiamento. Ho lavorato molto intensamente sulla creazione di un equilibrio fra stile, trama, emozioni, interiorità dei personaggi. In questo caso avevo in mente una storia completa fin dall'inizio, con un worldbuilding già saldo, e ho concentrato il lavoro in un lasso di tempo ridotto (circa 9 mesi… un parto, ma in confronto ai quindici-vent'anni del romanzo precedente non è nulla!) Scrivendo regolarmente ogni giorno è molto più facile "tenere la testa" su un progetto. A livello stilistico, la strategia adottata dopo l'esperienza del primo libro è stata molto semplice: ascoltare i consigli degli addetti ai lavori, continuare a studiare, e interagire con i lettori, anche e soprattutto quando restituivano impressioni negative del mio lavoro. Ho imparato a fare un passo indietro e a trattare i miei testi senza pietà, come se non li avessi scritti io. Non mi faccio sconti, non sono indulgente con me stessa. Poi ovvio, la strada è lunga e l'intemperanza può capitare… ma ora so che inseguire a tutti i costi la frase o la parola che reputi "migliore", dal punto di vista lessicale, non sancisce necessariamente la buona riuscita di un testo. Anche se vuoi usare una metafora insolita, devi renderti comprensibile, dare una suggestione senza strafare: è lì che puoi suscitare e sedurre le emozioni del lettore. Per ora sono piuttosto soddisfatta di questo approccio: devi lasciare che le persone si immergano nel tuo mondo, senza affogarle.

3. Nei tuoi romanzi sembri fondere elementi di fantascienza con una profonda esplorazione  dei personaggi e delle loro emozioni. Come bilanci la narrazione dei dettagli tecnologici e scientifici con lo sviluppo della profondità e dei protagonisti delle tue storie?

Quando scrivo i personaggi sono al centro della trama e del worldbuilding, veri e propri generatori di senso. E attorno a loro ruotano le tecnologie o gli aspetti scientifici che inserisco nella storia. Mi piace parlare di cyborg perché la trasformazione del corpo, l'ibridazione con la macchina, l'interfacciarsi con la coscienza apre a infinite prospettive evolutive, ed esplorarle dal punto di vista psicologico è fondamentale per il "colore emotivo" di un romanzo o di un racconto, che io spesso baso sui contrasti. Per esempio: l'innesto elettronico o meccanico è catena o potenziamento dell'umano? Quanto c'è di alieno nel mondo organico, che "ci abita" ma che non conosciamo a fondo, e quanto nel metallo, le cui dinamiche possiamo controllare? Ma fino a che punto? Che succede se è l'innesto, o il parassita sintetico, ad accrescere l'umanità e/o l'empatia di qualcuno che credeva di averla persa per sempre? Tutto questo crea un'osmosi fra personaggio e tecnologia, perfino con uno scambio di ruoli: l'identità così costruita diventa più della somma delle parti… e se da un lato mi discosto dalla posizione "classica" della macchina-nemica, dall'altra metto l'accento sulle conseguenze che una concezione messianica della scienza e della tecnologia potrebbe avere sulla percezione dell'io, avviando un processo di svalorizzazione delle peculiarità umane.

4.Vorrei approfondire il concetto di Distopia presente nei tuoi romanzi. Cosa rappresenta per te la Distopia e ritieni che si tratti del mezzo migliore per interpretare la nostra realtà attuale?

La distopia per me è una lente di ingrandimento, e come tutti gli strumenti va usato con attenzione e senso critico. Soprattutto, è importante saper alzare la testa dal cerchio di vetro, che ingrandisce ma distorce i dettagli, e guardarsi intorno. Nelle mie distopie sono solita portare alle estreme conseguenze alcune delle scelte compiute ogni giorno a livello politico, sociale, ambientale. E sì, le spingo in un  futuro più o meno remoto, rassicurante perché  mi auguro di non vederlo. Intento apotropaico? Certo. Monito? Anche. Ma ciò che mi preoccupa è che pur avendo a disposizione molti strumenti di analisi della realtà, mi sembra che la tendenza generale sia di abdicare al loro utilizzo, preferendo accodarsi a una polarizzazione che annulla le sfumature e annienta il dialogo, in favore di un'atmosfera da stadio. Le distopie non sono più chiuse dentro i libri, e anzi non lo sono mai state, sebbene in modi e misure diverse per ogni civiltà… ma senza coscienza critica (e il desiderio di alzare lo sguardo oltre il recinto degli slogan e delle facili etichette) non saremo mai in grado di individuare eventuali campanelli d'allarme nella realtà che ci circonda.

5.Come ti avvicini alla costruzione delle tue trame? Hai un metodo specifico che segui o preferisci lasciare spazio alla creatività spontanea durante il processo di scrittura?

Come dicevo sopra, per un lungo periodo ho dato sfogo alla mia creatività, e credo che in generale sia un buon modo, in una fase acerba, per conoscersi come autori: capisci che cosa vuoi raccontare, che tipo di linguaggio vuoi usare, esplori liberamente il tuo immaginario. Poi, però, è importante acquisire un metodo, e il mio è in fase di stabilizzazione. Allo stadio zero, "appaiono" i personaggi e le "location": sono quadri scenici che mi vengono in mente così, come brevi sequenze di film, suscitati dagli stimoli più strani. A questo punto inizia la razionalizzazione: prima studio la storia, e creo una scaletta di macrosequenze. È una fase abbastanza lunga. Poi passo alla scaletta più analitica, che in genere contiene anche sotto-episodi… ma non sono rigidissima, a volte l'idea giusta per uno snodo narrativo ti viene scrivendo. E dopo si parte: quando sono alle prese con un progetto, cerco di scrivere ogni giorno e all'inizio mi attribuisco una soglia minima, 5.000 battute. Dopo i primi dieci giorni aumento la soglia, fino a toccare le 20.000 quotidiane. Naturalmente non è tutto oro colato, anzi, la seconda stesura è sempre un bagno di sangue. Inoltre ci sono momenti selvaggi, tutti istinto, fatti di penna che scorre sulla carta, di scariche di polpastrelli sui tasti del computer, e musica sparata alta nelle cuffie. Ci sarà tempo, poi, per capire se da quelle sessioni istintive sia uscito qualcosa di buono. E infine… c'è la fase di limatura, che io adoro anche se è molto pesante e costituita da diverse revisioni, in cui leggo il manoscritto a voce alta. A quel punto, lascio riposare il testo (per quanto me lo concede la scadenza), non lo tocco e cerco di non pensarci per un po'. Prima dell'invio do un'ultima lettura e provo a stanare tutti i refusi possibili!

6.Nei tuoi romanzi, crei mondi complessi e dettagliati in cui traspare una vena apocalittica. Si tratta di uno sguardo lucido e onirico allo stesso tempo. Hai visioni cupe e angoscianti del nostro futuro?

Sono molto pessimista, lo ammetto, ma nel mio pessimismo desidero con tutte le forze essere smentita. Credo sia importante, per me, conservare una vena onirica perché rappresenta quella parte di "sospeso", di "irrisolto", un margine di fuga dalla mia visione del futuro. Infatti, per quanto il mondo (esterno o interno) dei personaggi possa essere devastato, c'è sempre una scintilla di speranza, e la loro evoluzione sta proprio nel trovarla. Come per la distopia, anche l'apocalisse (concettualmente, può rappresentarne lo stadio successivo) si aggira fuori dalle pagine dei libri da un bel po'. È solo che (noi) non viviamo (ancora) in aree del pianeta dove si rende così esplicita. E sì, credo che tutte queste "piccole" apocalissi locali siano dei passi pericolosi verso quella con la "A" maiuscola… ma spero che si possa trovare un modo per disinnescarla.

7.Nella tua opera , spesso si trovano riferimenti a città-stato oscure e minacciose. Cosa rappresentano simbolicamente per te?

Ho un rapporto complesso (e in continua evoluzione) con la dimensione urbana: sono cresciuta in campagna, e per vari vissuti familiari la città per me è stata a lungo sinonimo di ospedali, con tutto ciò che consegue in termini di pressione emotiva. Quando sei piccola costruisci parte del tuo immaginario dando una forma fantastica alle tue angosce, e sento ancora molto vicino quel lato di me, anche se, naturalmente, lo affronto e lo elaboro in modo del tutto diverso. Crescendo ho imparato ad apprezzare i lati positivi della città, a flirtare con le paure che ne scaturivano, e ne sono molto affascinata: anfratti, verticalità, modularità, luci, ombre, persone e storie che si sfiorano. Inoltre, la dialettica conflittuale fra centro (compresso e dedalico, ma fulcro del potere) e periferia/provincia (sterminata, ma spesso dimenticata, fraintesa e sfruttata) è un tema che affronto spesso e tendo a rapportare metaforicamente al nostro modo di vivere il mondo, fatto di dicotomie e contraddizioni, dove l'elemento della sopraffazione purtroppo sembra essere quasi imprescindibile, inevitabile. 

8. Chi sono gli autori di fantascienza (e non solo) che ti hanno maggiormente influenzato?

Amo raccontare i demoni che popolano l'inconscio o il passato dei personaggi: credo che questo sia frutto della lettura, molto precoce, di Poe e Lovecraft. Quando poi, durante il periodo dell'adolescenza, lessi Baudelaire e i poeti maledetti, ne fui travolta: raccontare attraverso sensazioni in grado di mescolarsi, per accedere a un livello narrativo e immaginifico ulteriore, divenne per me una sfida che continua ancora oggi… soprattutto perché per ottenere un "dialogo" con il lettore è fondamentale trovare un equilibrio fra "visione" e stile, altrimenti si rischia il solipsismo.

Poi ci sono stati tanti altri autori: Stephen King, Ray Bradbury, Dan Simmons, William Gibson, Philip K. Dick, George Orwell… e di certo ne sto dimenticando molti. Ma leggo davvero di tutto, e pensa che negli ultimi anni mi sono appassionata all'opera di Irène Némirovsky: la trovo straordinaria nella "ritrattistica" emotiva e nella cura dell'ambientazione come riflesso del paesaggio interiore dei personaggi.

Inoltre sono un tipo curioso, e mi piace esplorare anche generi molto lontani da quello che scrivo.