Lucio Besana è scrittore, traduttore e sceneggiatore. È co-autore dei film The Nest e A Classic Horror Story (Netflix). Esordisce nel 2021 con "Storie della Serie Cremisi" (Edizioni Hypnos), antologia di weird distopico che ottiene un ottimo riscontro di pubblico e di critica nella scena indipendente. Segue il romanzo dell’orrore L’Innocenza del Buio (Sperling & Kupfer, con Roberto De Feo) e il romanzo breve Ombre dei Vivi e dei Morti (Zona 42). Insegna sceneggiatura alla Scuola Holden, alla Scuola di Cinema "Luchino Visconti” e alla Scuola del Fumetto. Vive a Strasburgo con la sua compagna.

Intervista

Nelle recensioni dei tuoi libri, viene spesso menzionata la tua abilità nel creare atmosfere suggestive e coinvolgenti. Qual è il tuo processo creativo per costruire queste atmosfere uniche e suggestive?

Anzitutto, grazie a te e a Horror Magazine per l’interesse

Nella Serie Cremisi sono partito dalle zone d’ombra della nostra realtà, quelle aree, anche banali, fuori dalla portata immediata e remota della nostra percezione – un paese lontano, il numero di porte nella nostra casa, la nostra memoria. Il presupposto è semplice: per esempio, una nazione che non conosci occupa, nella tua immaginazione, lo stesso spazio di una nazione mai esistita. Ho giocato su questa sovrapposizione per introdurre elementi fantastici nell’esperienza di realtà del lettore. Allo stesso tempo l’ho posizionato nel punto di vista di un turista, di un passante, di qualcuno che non è toccato direttamente da ciò che vede, e che paradossalmente assiste ad eventi prodigiosi e orribili con distacco. Quel distacco, quell’incapacità di meravigliarsi e inorridirsi, era ciò che volevo raccontare.

In Ombre dei Vivi e dei Morti lo scopo era dare al lettore la sensazione di ricordare la storia, più che di viverla leggendo. Per farlo sono partito dal linguaggio dei personaggi narranti e ho astratto la Valle che ha ispirato il romanzo fino a renderla un luogo della memoria più che un luogo reale.

L’Innocenza del Buio è un romanzo più ampio e con un concept classico. Per scriverlo mi sono riferito a canoni noti: Stephen King, il romanzo gotico. La progressione è quella tradizionale: l’orrore è dapprima accennato, poi arriva in ondate sempre più violente fino a esplodere. Mi sono permesso di sperimentare solo nelle parti dedicate alle vite passate dei protagonisti, dove ho cercato uno stile più emotivo e immediato. Ma l’effetto che doveva dare il romanzo era semplice e chiaro, non esigeva particolari accorgimenti di stile e struttura.

Quali sono gli scrittori che ti hanno influenzato maggiormente? Oltre a scrittori di genere horror ce ne sono anche altri a cui ti senti legato?

La lista è lunga. La “Serie Cremisi” viene da Borges, Chatwin, Kafka, Damasio, Buzzati e Ligotti. Mentre scrivevo ”Ombre” avevo in testa Marquez e Tolkien. Per l’”Innocenza”, Anne Radcliffe, Stephen King, J.K. Rowling e Shirley Jackson. Altri scrittori a cui sono legato sono Paul Auster, Victor Hugo, Herman Melville, John Steinbeck, John Cheever, Raymon Carver, Joyce Carol Oates, Anne Marie MacDonald. E continuo a scoprirne di nuovi. 

Hai citato Thomas Ligotti come una delle tue influenze letterarie (o meglio mi sembra che hai citato in particolare "Teatro Grottesco"). A mio avviso questa influenza emerge soprattutto in "Storie della serie cremisi". Tuttavia non imiti pedissequamente Ligotti (con il rischio di cadere nella parodia involontaria) ma riesci a mio avviso a trovare un tuo linguaggio originale. In che modo il suo lavoro ha contribuito allo sviluppo del tuo stile narrativo e come riesci a distinguerti pur prendendo ispirazione da altri autori?

Credo che la maniera migliore per distinguersi dai “maestri” sia trovare e ascoltare la propria voce di autore; e chiedersi, con il cuore in mano, se il proprio lavoro aggiunga effettivamente qualcosa all’immaginario del genere, o se al contrario non stia ripetendo cose già dette. L’influenza di Ligotti sul mio lavoro è stata sovrastimata, temo, ma è vero che è stata la lettura di “Teatro Grottesco” ad aprirmi le porte per scrivere la “Serie Cremisi”. Di quell’antologia mi ha colpito in particolare l’effetto di “realtà aumentata”, la capacità di contaminare il senso di realtà del lettore, di rendere le sue fantasie non solo adiacenti al nostro mondo, ma parte di esso.

Dove il mio lavoro si distingue dal suo è nel gesto che fa verso il lettore. Ligotti mira a immergerlo in una disperazione senza uscita, dove non ci sono dubbi o sfumature, radicata in una visione filosofica precisa, che non viene mai messa in discussione. Al contrario, le mie storie scaturiscono dalla mia fondamentale incapacità di capire appieno il mondo e gli esseri umani, e di iscriverli in un unico principio sintetico, in una sola filosofia onnicomprensiva. Sono domande più che affermazioni, esami di coscienza in un deserto morale. E se porto il lettore in luoghi oscuri è per farlo riflettere su ciò che resta della nostra umanità, che è la mia vera preoccupazione, di essere umano prima che di autore. 

Storie della serie Cremisi presenta una serie di racconti interconnessi. Qual è stata la tua visione nel collegare queste storie e come hai gestito la narrazione attraverso di esse per creare un'esperienza coesa per il lettore?

Non ho pensato a una narrazione, le storie non sono interconnesse per continuità ma per la ricorrenza dei simboli e per l’emozione che creano. Ciò che veramente unisce queste storie è lo stato mentale in cui immergono il lettore. Per raggiungerlo ho reso la scrittura il più visiva possibile, e ho dato più importanza alle immagini che agli intrecci; in questo, mi hanno aiutato enormemente alcuni riferimenti pittorici e fotografici: principalmente le opere di Daniel Danger, David Fragale, Nick Brandt, Zdislaw Beksinski.

Lavorare con un coautore per L'innocenza del buio ha portato a un cambiamento significativo nella tua scrittura. Qual è stata la tua esperienza nel lavorare a questo progetto e come hai gestito la transizione verso uno stile più convenzionale? Ammetto di essere rimasto un po' sdubbiato di fronte ad un libro formalmente impeccabile ma che non sento completamente tuo.

L’ho sentito come un passaggio naturale nella mia crescita di autore. Come lettore sono cresciuto con Stephen King e la narrativa di consumo è stata cruciale nella formazione del mio immaginario di lettore e scrittore. Scrivere per Sperling è stata l’occasione per parlare a un pubblico di lettori giovani e ancora capaci di sorprendersi, come lo ero stato io a undici anni mentre scoprivo IT

Poi, come osservi giustamente, l’”Innocenza” è “mio” solo in termini di sviluppo e scrittura, ma l’idea originale è di De Feo. Contrariamente al mio, l’universo di De Feo è manicheo, spielberghiano: ci sono i buoni e i cattivi, l’infanzia ha un certo valore simbolico, il Male è una quantità finita, riconoscibile. Per questo ho optato per una scrittura più calda e concreta, per dei personaggi immediatamente accattivanti, per una struttura narrativa più ortodossa. Lo stile e le sperimentazioni della “Serie” o di “Ombre” non avrebbe funzionato.

Il tuo libro più recente, Ombre dei vivi e dei morti, sembra affrontare tematiche legate al progresso tecnologico e alla perdita delle tradizioni. Qual è il messaggio principale che desideravi trasmettere con questa storia e come hai integrato queste tematiche nel tuo lavoro?

Non volevo veicolare un messaggio, come autore ho più domande che risposte. “Ombre” porta il lettore a confrontarsi con la propria memoria, con ciò che si è lasciato alle spalle: i propri cari, la propria identità, i rapporto con le proprie radici. Ricordare è per certi versi venire a patti con ciò che abbiamo sacrificato o perso in contropartita all’esistenza che conduciamo nel presente: sta al lettore decidere se ne sia valsa la pena, o accettarlo come l’ordine naturale delle cose. Nel romanzo l’elemento fantastico misura la distanza che percepiamo dal nostro passato e dalle nostre radici: un tempo, forse, guardando le Ombre avremmo provato stupore e reverenza, come davanti a qualcosa di sacro; viste con gli occhi dell’uomo contemporaneo ci appaiono sbagliate, come mostri usciti da un incubo. Di nuovo, sta al lettore trovare il proprio posto in questa ambiguità, sta a lui capire se le veda come creature meravigliose o mostruose. Io per primo non so come reagirei se le incontrassi.

Hai interagito con i superstiti delle generazioni di operai che hanno eretto gli impianti idroelettrici della Val Camonica per "Ombre dei vivi e dei morti". In che modo queste testimonianze hanno influenzato il tuo processo creativo e la trama del libro?

Hanno strutturato la storia e mi hanno dato una prospettiva da cui raccontarla. Lo spirito delle Storie che contiene è quello dei camuni che ho incontrato in Valle. Questa pluralità di anime è anche il motivo per cui si articola come un susseguirsi di storie raccontate da personaggi diversi.

Oltre ai tuoi progetti passati, quali sono le tue aspirazioni future come scrittore? Ci sono temi o generi che desideri esplorare che non hai ancora toccato?

La mia priorità per il momento è di pubblicare il materiale che resta dalla mia ultima sessione di scrittura, conclusa nel 2022 e durata circa sette anni, la stessa da cui sono uscite la “Serie” e “Ombre”. Ho quasi finito. Il prossimo titolo che vorrei pubblicare è il romanzo “La Stanza Bianca”, un incrocio ideale tra Salem’s Lot di King e Casa di Foglie di Danielewski. Sono alla ricerca di un editore mainstream e potrebbe volerci ancora qualche tempo. Sto anche pensando a una seconda antologia, una raccolta dei racconti pubblicati negli ultimi anni su varie collane e antologie. Ho già un editore di fiducia interessato, stavolta nella scena indipendente, ma ne riparleremo dopo l’uscita del romanzo. Per il seguito sto accumulando idee e materiale, ma non so dire quando e se queste suggestioni prenderanno una forma definita. Non mi metto fretta. Posso solo dire che non mi sembra di andare nella direzione della “Serie Cremisi” o di “Ombre”. Sto cercando qualcosa di diverso.

Nel frattempo, continuo a insegnare, a tradurre (ho in cantiere un secondo Blackwood e un altro romanzo caro a Lovecraft) e sto pensando a un saggio sul cinema e la letteratura weird e horror.

Le mie intenzioni sono di continuare a pubblicare sia nell’indipendente, senza compromessi e per un pubblico specializzato, sia nel mainstream, tentando di fidelizzare un pubblico più trasversale. Non penso che le due identità siano incompatibili, ma immagino che a un certo punto dovrò scegliere una strada o l’altra. Vedremo.

Come vedi l'attuale scena weird italiana?

Sul fronte degli autori il livello è alto, tra le vecchie leve e i nomi emersi negli ultimi anni; credo anche che ormai si sia raggiunto un picco qualitativo. Parallelamente mi sembra che gli editori, per quanto piccoli, stiano diventando sempre più consapevoli della loro forza e importanza sul mercato. I lettori sono semplicemente fantastici, interessati e partecipi, e abbiamo tanti divulgatori capaci (per esempio Flavio Troisi, Laura Gobbo, Alessandro Girola) che li stanno portando verso autori di cui prima non conoscevano l’esistenza. Mi scalda il cuore vedere che sempre più librerie di settore (per esempio il Covo della Ladra a Milano o Karass a Venezia) mettono a scaffale i nostri titoli. E’ ancora un’economia chiusa, una nicchia, ma potrebbe non essere un male per l’autenticità dell’offerta, soprattutto considerato che le librerie generaliste sono sempre più incapaci e sempre meno intenzionate a offrire dei titoli horror e weird di qualità, tolti i soliti noti. Per il futuro, come autori dovremo capire come ci difendiamo all’estero. In questo senso la nomina di Luigi Musolino per la finale del World Fantasy Award potrebbe aprirci qualche porta. E resta da vedere dove si va da qui, se questo momento di fertilità creativa e immaginifica sia parte di un ciclo – se quindi continueranno regolarmente a comparire nuovi Musolino, nuovi Corigliano, nuovi Cucinotta – o se il fermento degli ultimi anni sia un evento isolato. Personalmente, spero che la conversazione continui ancora a lungo.