Urlerei, ma un travolgente flusso di vomito me lo impedisce. Fatico a respirare, perché quel liquido oleoso ora mi esce simultaneamente dalla bocca e dal naso. Tra una scarica e l’altra ho giusto il tempo di immagazzinare un po’ d’aria per non soffocare. Enrico è poco lontano da me...

- Mi è venuta un’idea.

Enrico sorrise e iniziò a spiegarmi cosa aveva in mente parlandomi all’orecchio; anzi, urlandomi all’orecchio, dato che in quel bollente venerdì di luglio i finestrini della metropolitana erano abbassati e lo sferragliamento rischiava di rubargli le parole dalla bocca. L’aria condizionata rotta, le signore a dimenare ventagli improvvisati, la folla di pendolari incapace di reprimere l’esasperazione (“È uno scandalo!”; “sto facendo la sauna!”; “tutti i giorni la stessa storia”; “tanto il sindaco gira con l’autista: non ci viene quaggiù!”; “ancora dieci minuti in questa fornace e dovrete chiamare un’ambulanza: il mio cuore non è più quello d’una volta.”). Insomma, nulla di nuovo. Infatti c’eravamo annoiati l’intero pomeriggio, finché il mio compare non aveva trovato il modo di dimenticare per un po’ il pensiero di passare tutta l’estate in città in compagnia del sudore e delle zanzare.

Il piano era rudimentale, ma efficace: rubare il pacchetto di paste alla vecchia seduta di fronte a noi. Quella donna, che puzzava di zitella, teneva un vassoio leziosamente incartato sulle ginocchia appuntite, senza quasi toccarlo, ma di tanto in tanto giocherellava con i nastri del fiocco ornamentale e sfiorava gli angoli della confezione, sorridendo impercettibilmente. Sembrava fiera, soddisfatta, piena di aspettative, ma non voleva darlo a vedere.

- Secondo me, la vezza si sta eccitando pensando ai suoi dolcetti, visto che le manca un bel cannolo in quella fagiana rinsecchita!

Accompagnai questa frase con un fischio e un gesto eloquente che fece sghignazzare Rico. Mi esaltavo sempre quando approvava le mie battute. Davo molto peso al suo giudizio, perché era più grande di me di due anni ed era un teppista di tutto rispetto, non come me che, per quanto mi sforzassi di fare il dannato, ero tra i migliori della classe... non che fosse difficile eccellere nella II A della Scuola Media Torquato Tasso.

Fu semplice sottrarre il malloppo ipercalorico alla vecchia: quando si accorse di ciò che era accaduto le porte del metrò si erano già richiuse dietro le nostre spalle e noi correvamo sulla scala mobile ridendo e intonando il ritornello di Hey Stoopid del mitico Alice Cooper. Una mezz’ora dopo, eravamo al Parco: un’ampia distesa di trasandata boscaglia a ridosso dei casermoni popolari, usata dai più come discarica o scannatoio en plein air. Sfidando l’umidità, ci inoltrammo nella zona più interna. Con un po’ di fortuna avremmo potuto sgranocchiare la nostra refurtiva spiando qualche professionista del sesso al lavoro. Fummo sfortunati: intorno a noi alleggiava il nulla più assoluto. Ci consolammo coi baci di dama, le frolle, i bignè, i cannoncini, i babà, le lingue di gatto, i profiterole e le praline al cocco. Enrico si era avventato sul cabarè con la bava alla bocca, io invece, da principio, simulai scarso appetito e spiluzzicai qua e là, ostentando indifferenza, anche se mi sarei volentieri rimpinzato: come molti ragazzi in sovrappeso, non amavo mangiare in pubblico.

- Luca, prova le meringhe! Sono ottime.

Rico aveva le labbra incorniciate da uno strato di crema chantilly e briciole di sfoglia. Ubbidii e mi infilai un’intera meringa in bocca: una delizia davvero. Poi mi cadde l’occhio sul bigliettino infilato nell’imballaggio: “A Rita e Luigi, con l’augurio di un matrimonio felice!”

- Rico, abbiamo rubato questi dolci a una coppia di sposini... Magari per colpa nostra lui ha un calo di zuccheri e pianta un cileccone proprio la prima notte di nozze!

Le nostre risate echeggiarono per il Parco, sempre più silenzioso e sempre più vuoto. La scorpacciata e il caldo a poco a poco ci fecero assopire.

Furono i violenti conati di Enrico a svegliarmi. Era nudo e si contorceva in modo sgraziato, come fosse manovrato da un invisibile burattinaio che voleva renderlo ridicolo nel momento del dolore. Io non riuscivo a muovermi, attanagliato dallo sgomento e dalla paura. Poi il mio amico iniziò a vomitare: dalla bocca gli usciva una fiumana giallastra dall’odore nauseabondo (un misto di latte scaduto e pattumiera abbandonata al sole). I minuti passavano, ma la piena non si arrestava, anzi, il liquido trovava sempre nuovi orifizi dai quali sgorgare: l’ano, l’uretra, le orecchie e, infine, gli occhi. Ma l’incubo era solo ai titoli di testa.