A distanza di diciassette anni arriva il secondo episodio de Un brivido sulla Schiena del Drago. Tornano i simpatici, diabolici vecchi del Circolo del Venerdì e tornano soprattutto le loro veglie magiche dagli esiti imprevedibili.

Per chi non avesse mai letto Un brivido sulla Schiena del Drago (ristampato abbastanza recentemente da Impressioni Grafiche) e non ha dunque idea di chi siano Carlos Aztarain, Sergio Meccucci, Gabriele Ideo o il tremebondo Chicchi Andronico, diciamo anzitutto: poco male.

Infatti La stazione del Dio del Suono si legge tranquillamente come un romanzo autonomo. In effetti questo secondo episodio è migliore del primo ed è proprio in esso che il pur sempre grande Danilo Arona tocca l’apice della propria arte scrittoria. Un’arte che molti di voi avranno già potuto apprezzare in Palo Mayombe (Flaccovio 2003), ma che solo in La stazione del Dio del Suono diventa matura e, come si dice, pienamente consapevole dei propri mezzi.

Le coordinate narrative sono queste: i vecchi del Circolo del Venerdì amano improvvisare storie del terrore nel corso di veglie notturne che si tengono in località precise, scelte perché segnate su una mappa ove sono segnati tutti i luoghi maledetti della Terra, quelli che sorgono sulla Schiena del Drago, appunto. Chi narra sulla Schiena ottiene il seguente risultato: i suoi racconti diventano reali e interagiscono con la realtà, perfino i più fantasiosi e non auspicabili. Perciò entità mostruose si materializzano come se niente fosse e il flusso stesso del tempo può venire alterato cambiando la versione dei “fatti”.

Non siamo fra quelli che debbono per forza essere gentili - dato che non ci pagano per esserlo. Perciò diciamo subito che proprio per la speciale tecnica compositiva che adotta Arona spesso i suoi libri risultano lenti all’inizio e si fanno coinvolgenti a mano a mano che la lettura prosegue. Ciò avviene perché Arona usa materiali diversi, partendo da frammenti eterogenei (articoli di giornale, racconti altrui letti e rielaborati, esperienze personali e, in fine, invenzioni originali), nei quali la realtà e la fantasia si intrecciano sempre più inestricabilmente, in modo da formare una struttura coerente... un romanzo.

Naturale quindi che il processo si faccia più coinvolgente verso la fine, quando vediamo per magia tutti i pezzi del puzzle creare una figura sempre più precisa e terrorizzante.

Ebbene, ne La stazione del Dio del Suono le cose vanno diversamente: la tecnica compositiva è la stessa, ma la frammentarietà è ridotta al minimo e siamo tutti istantaneamente catapultati nel pieno del brivido più puro. Non solo: il climax si mantiene costante per tutto l’arco della narrazione, nella miglior tradizione dei best-selleristi occidentali. Anzi fa di più! Mescolando sapientemente tutti gli elementi della scrittura aroniana (la piccante avventura erotica, il senso dell’umorismo, la paura e la capacità di evocarla...) scopriamo la lezione di un classico latino mai letto abbastanza e che forse sarebbe bene rispolverare: L’asino d’oro di Apuleio.

In effetti qui più che altrove Arona si svela un cugino non troppo alla lontana del massimo autore della cosiddetta età d’argento della letteratura classica. Tutti gli elementi ci portano in quella direzione. Ve ne accorgerete non appena farete vostri questi due testi assolutamente fondamentali nella biblioteca di un gothista.

Classico.

Un termine abusato che rischia seriamente di dover essere tirato in ballo per descrivere La stazione del Dio del Suono.