Secondo la tv ci meritiamo Suor Cristina. Uno come Jay Smith da noi sarebbe stato cacciato ai provini. Ma in Svezia è tutta un’altra storia. E chi potrebbe trovare fuori luogo questa recensione sulle pagine di un magazine dedicato all’horror è bene che faccia attenzione ai dettagli. Jay Smith è uscito da un talent e – cosa che agli italiani in effetti potrebbe apparire strana – ha talento. Guardate la cover e pensate a un calendario? Meglio se virate su Jim Jarmusch e Tom Waits. Le melodie folk e country vi rimandano a qualcosa di romantico? Sarebbe semmai preferibile associarle a Rodriguez e Tarantino (e non è certo un caso se la band si chiama The Reservoir Dogs). Chi ha avuto modo di ascoltare l’album di cover (e di platino) pubblicato nel 2010 a seguito della vittoria a Swedish Idol, ha sicuramente già apprezzato la ruvidezza della voce di Smith e il particolare modo che ha di fare suoi, sporchi e sofferti, i pezzi pop più improbabili, da Lady Gaga ai Backstreet Boys, passando per Madonna e Phil Collins. E la personalità del musicista traspare meglio proprio da questi brani, piuttosto che dalle rivisitazioni di Metallica o Nirvana, dove i paragoni risultano più immediati (seppur non scontati). Una tessitura timbrica che riesce a passare con disinvoltura da interpretazioni intimistiche alla Cohen a territori post grunge e commerciali alla Nickelback. Con questo King of Man, uscito in Svezia alcuni mesi fa ma reperibile in Italia e nel resto Europa da oggi per Gain Music/Sony (negli States arriverà il 18 luglio), Smith mette in luce anche le sue abilità cantautoriali; abilità che non mancheranno certo di intrigare quella frangia di amanti della musica a tutto tondo che vede nel palato fine ma anche nel sudore i suoi punti fermi.

King of Man è un microcosmo di generi (si va dal pop al blues, da richiami metal e grunge a suggestioni folk e soul) eseguiti con un unico stile. Del resto, Smith nasce come violinista, prosegue come chitarrista metal e grunge, e si presenta come cantante blues e country. Prodotto da Dan Sundquist, il disco è uscito in Svezia lo scorso dicembre, e l’orecchiabile singolo omonimo è diventato nell’arco di pochi giorni il brano più condiviso su Spotify Sweden; singolo che, per tornare alle immagini di partenza, è stato promosso attraverso un inquietante videoclip a metà tra la Ghost Story e il Grand Guignol. L’espediente provoca nell’ascoltatore/spettatore l’effetto straniante descritto da Chion riguardo la musica ‘anempatica’ delle colonne sonore horror, per l’accostarsi delle immagini macabre a una soave nenia popolare; una cantilena che è a ben vedere una sorta di canzonatura dell’inquietudine provata (e per tanto raddoppiata e rinforzata), mentre tutto intorno si mostra indifferente.

E alla malinconia fumosa, come titolo vuole, è affidata l’apertura con The Blues; ma se i suoni sono contemporanei, le atmosfere appaiono quelle struggenti del british rock blues di Steve Winwood ed Eric Clapton. Il rock blues si fa poi più sostenuto e accattivante nella massiccia Women, mentre Keeps Me Alive si mostra più vintage, sia nella strutturazione pianistica, sia nel gusto melodico dell’arrangiamento e delle armonie del ritornello, sforando nel soul, fino a sfociare nella title track.

Non amo le cover che vanno a stravolgere totalmente l’originale, ma questa rivisitazione blueseggiante di Cowboys from Hell dei Pantera, quasi irriconoscibile nella sua ricerca di una melodia strascicata ma definita, con i suoi valori rallentati e zoppicanti, è particolarmente riuscita, a partire dal mormorio simil gospel che riproduce al rallentatore il riff di Dimebag Darrel. Forse più torva e maledetta che nella struttura thrash.

Sanctuary è un bel pezzo melodico orchestrato, arioso nel ritornello, quasi confidenziale nelle strofe, e nell’apertura già preannuncia il sapore delle due tracce successive: Keep Your Troubles At Bay, dopo una rapida strizzata d’occhio al tema di Mission Impossible, prosegue con un brano dal retrogusto jazzistico, swingato come un noir in bianco e nero, che vede nella ripetitività un tratto necessario per natura; nel contesto risulta meno riuscito di altri - per quanto sia interpretato in maniera divertente, talvolta da crooner - soprattutto per la scelta della tracklist, per cui più o meno sullo stesso stile si rimane con Ode to Death (Little Sister).

La ballata soul Tramp of Love è dotata di meno personalità rispetto ai brani più sostenuti e risulta più prevedibile, seppur di buon gusto, nella ricerca delle melodie e delle armonie. Contrapposta, incontriamo Evil I Might Be, moderno rock and roll anthemico, roccioso ed energico nel ritornello, abbellito nelle strofe da tutte le influenze sopracitate, fino alla fusion. E il cerchio sta per chiudersi con Worries Won’t Bring It Back, rock blues abbastanza classico che affida ampio spazio all’organo.

L’ascolto si conclude con Sanctuary Revisited, altra versione della traccia 6, come un reprise sommesso nel finale (il primo passaggio era più ‘brillante’), giocato più sull’orchestra e il piano che sull’intera band. Si nota anche qui un certo gusto nel riferirsi alle colonne sonore con un richiamo (forse inconscio) al reprise Super Heroes - Science Fiction/Double Feature del Rocky Horror Show (nonché i saluti finali per chi raggiungerà altri lidi). La scelta è sicuramente azzeccata, dato che si tratta del pezzo più evocativo dell’intero lavoro.

King of Man è un disco che si dimostra nel complesso di ottima qualità, a livello compositivo, esecutivo e di resa dei suoni. Granitico e fuligginoso. Una sequenza di tracce che si lascia ascoltare da cima a fondo con interesse e piacere immediato sin dal primo passaggio.

Consigliato a chi cerca qualcosa di sporco e raffinato al tempo stesso... tipo Sean Connery ne “Il nome della rosa”, se proprio non possiamo prescindere dalle vocazioni.

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