La lego. Stringo. Le cinghie di contenzione scorrono, si bloccano e la trattengono.

Ma June non ha alcun desiderio si scappare. Mi guarda e la sua bocca priva di belletto mi regala un lieve sorriso. Mi sta incoraggiando a non fermarmi.

Io continuo, immobilizzo le caviglie con i lacci di cuoio e collego gli elettrodi. I suoi piedi sono freddi e non freno più la compassione: li raccolgo nelle mani e dono loro il mio calore. Lei capisce che sono io quello smarrito.

– Mi fido di voi, dottore. So che lui verrà.

La sua voce è un sussurro. Tutto in June appare fragile, ma io so che è un incantesimo: nel suo corpo minuto affonda le radici un nerbo che non accetta suggestioni.

È troppo giovane, continuo a ripetermi, ma non mi fermo. Lei non vuole.

Il sole del pomeriggio è basso all’orizzonte. Entra dalla vetrata dell’opificio in disuso inondandolo di luce dorata. Eppure, non ne sento il calore. Dovrei, ma il mio corpo è reso insensibile da pensieri cupi.

Il mio lavoro non è mai stato così difficile. Non voglio farle ciò che sto per compiere. Non vorrei, davvero.

Ho evitato di guardarla durante la complessa preparazione che ci ha permesso di arrivare a questo momento, ma non mi è più possibile: i miei occhi si ribellano e la cercano a ogni battito di ciglia. Fuggono, ma tornano sempre da lei.

Indossa solo una sottoveste di cotone bianco, umile ma decorosa. L’unica concessione alla vezzosità è il sottile ricamo che ne impreziosisce la sottana.

In una mano stringe un mazzo di fiori. I petali sono ancora imperlati di rugiada. Sono fiori di campo, semplici come lei. Nell’altra, tiene un dagherrotipo che infligge scudisciate dolorose al mio cuore.

La mia June.

Mia. Quando lo sia diventata, non riesco a ricordarlo. Mi è entrata dentro un poco alla volta, con i suoi silenzi, da quando un giorno si è presentata in lacrime nel mio studio e mi ha chiesto: – Siete voi il dottore delle anime?

Lei non ne è consapevole: è un ardore solo mio, che taccio al mondo.

Spingo il lettino che la accoglie fino alla vetrata. Il ferro cigola e lo stridio si accompagna a quello più soffocato delle vecchie ruote che arrancano sul pavimento di mattonelle sconnesse.

June è un sole in questa stanza grigia e macchiata d’umidità: la luce la bacia, ne incendia i capelli. Accarezza il suo profilo e ne fa brillare i contorni.

Sembra una sposa e, di fatto, lo è. Questo è giunta a fare, e la gelosia mi agguanta il cuore.

Le passo accanto, una mano sfugge al controllo e le sfiora una guancia.

Vorrei convincerla a restare, ma conosco la sua risposta, è sempre la stessa: portatemi da lui.

Lui, il suo solo pensiero: Tristan, che una morte tragica le ha strappato troppo presto.

Tiro la pesante tenda e l’oscurità si allarga nella stanza. Mi fermo solo quando non inghiotte metà del suo corpo per tutta la lunghezza, dal capo ai piedi, con precisione. Deve essere sospesa tra l’ombra e la luce, June, come il suo cuore è sospeso tra la vita e la morte.

Mi chino su di lei per un’ultima carezza e i brividi sbocciano sulla sua pelle come minuscoli fiori di carne.

Vorrei far scorrere i suoi capelli tra le dita, ma sarebbe sconveniente. Lei è mia solo nella mia testa.

Le tasto il polso: è debole e frequente. Appoggio lo stetoscopio sul petto ancora acerbo e resto in ascolto del suo cuore, quel cuore appassionato che sto per consegnare a un altro. Il battito è lento, quasi assente. Gli occhi sono vitrei e spalancati, le pupille dilatate. La belladonna scorre nelle sue vene seminando morte.

È ora.

– Buon viaggio, June – le sussurro all’orecchio, ma forse non può più sentirmi.

Le infilo tra i denti un pezzo di legno, perché non si morda la lingua. Voglio che il suo viso resti intatto.

Allontanarmi mi costa fatica. Ogni passo è un atto violento che mi ruba qualcosa di caro. La sto lasciando andare, e non voglio.

Raggiungo la bobina di Tesla, la straordinaria invenzione figlia di questi tempi moderni che mi ha permesso di indagare territori inesplorati, invisibili eppure esistenti. Controllo per un’ultima volta i due circuiti elettrici ad alta tensione che si avvolgono attorno al cilindro di vetro; tra poco genereranno un arco elettrico che fulminerà June.

Mi metto al riparo nella gabbia di Faraday. Vorrei indugiare ancora, ma non posso: devo fermare il suo cuore prima che lo faccia la tossina. Il sole è in posizione. Serve solo che una notevole quantità di energia si riversi nel suo corpo e ne estirpi la vita.