Nel sogno era un guerriero all’inizio dei tempi. Ma il dolore al braccio, pur trattandosi di una visione onirica, era indicibile.

L’arto era quasi paralizzato.

La ferita sul dorso, sotto la scapola sinistra, vomitava un grumoso torrente rosso.

Il sangue, sotto la luce della luna piena, si confondeva con i ghirigori dei tatuaggi neri che lui, un guerriero, portava sulla pelle. Se li era incisi in corrispondenza delle giunture più usurate: sul ginocchio sinistro, sui gomiti, senza risparmiare i polpacci e le caviglie. Un sistema rudimentale, in realtà, per recidere i fasci di nervi superficiali e anestetizzare quelle parti del corpo in preda all’artrosi, addomesticando i dolori. Poi aveva coperto quelle sculture cutanee con del carbone polverizzato e stemperato nell’acqua. Più un trattamento antalgico che una pratica estetica, insomma.

Stava fuggendo. Qualcuno desiderava la sua morte violenta. Da circa quaranta minuti, la punta di venti millimetri di una freccia, conficcata nella schiena, gli titillava il polmone.

No. Non poteva finire così.

Neppure in un sogno.

C’era una donna che desiderava abbracciarlo, accarezzare i suoi capelli bruni, sciolti sulle spalle, nuotare nell’azzurro dei suoi occhi. Una donna che per lui aveva ripudiato il rude compagno. Un maschio senz’anima ma armato e furioso in quella notte di vendetta.

Adesso era accovacciato a ridosso di una delle grandi pietre, oltre il fossato circolare tra i due terrapieni concentrici. Era riuscito a marciare per ore, per salvarsi la pelle.

Ma l’olfatto del nemico, il più primordiale dei sensi, quello che permette all’animale di ricercare il cibo e sentire un predatore, non gli aveva concesso requie. «Non hai scampo», gli aveva urlato come una iena assatanata, l’avversario. Il guerriero tatuato aveva del tutto smarrito la nozione del tempo.

Era soltanto lo spirito di sopravvivenza ad animarlo ancora.

Quello che l’aveva spinto ad abbandonare il villaggio, correre come un cinghiale ferito lungo il fiume, coprire con falcate disperate lo spazio che collegava il corso d’acqua al cerchio di pietra. Un gesto rischioso, forse sacrilego. Nessuno s’era mai azzardato ad attraversare il confine circolare che abbracciava l’architettura megalitica, se non per riverire il Regno dei Morti.

Lui, invece, aveva osato rintanarsi lì, sfidando l’ira degli spiriti, nella speranza che il nemico, inibito dal timore religioso, rinunciasse a inseguirlo.

Fallace speranza, quella. L’ira dell’avversario s’era rivelata più impetuosa di qualsiasi paura o convenzione.

Anche lui aveva varcato quel limite sacrale mosso da un solo obiettivo: ingoiare il sangue dell’uomo che gli aveva strappato la compagna dalle braccia.Nella corsa angosciata verso un riparo, aveva perso la faretra con dentro qualche punta di corna di cervo e sette frecce pronte a vibrare.

Così era stato costretto ad abbandonare l’arco, peso ingombrante e purtroppo non più utile. Ma il pugnale era sempre a portata di mano, mentre nella sacca poteva fare ancora affidamento su un’ascia di rame. L’unica, nel suo villaggio. Il dono prezioso di un guerriero straniero proveniente da una terra lontana. Un manufatto talmente efficace e robusto capace di abbattere persino un albero. Però lui era maledettamente mancino. Come avrebbe potuto impugnare un’arma se la mano dominante stava diventando più inerte e insensibile di un sasso?

Ansimava.

E sanguinava.