Viscido. Il terreno cede sotto i miei piedi. Liquame caldo si insinua nel risvolto dei pantaloni. Provo a scalciare, ma non sento più le gambe. Panico, rosso e accecante. Qualcuno mi sta trascinando con sé. Dove sono?

Odore di pesce marcio e salsedine. Puzza di morte, verde e pungente.

Sciabordii e rumori sommessi. L’eco di passi nelle orecchie. Si fermano. Fiato sul collo. Putrefazione e necrosi. Urlo. I capelli: tirati, strappati. La testa all’indietro. Dita sudate dentro la mia bocca. Mordo. Sangue, denso e ferroso. Più forte, più a fondo. La fredda consistenza di un osso tra i denti.

Un pugno, nero e feroce. Dolore. Due esseri. Mani. Cuoio. Manca il fiato. Sapore di pelle conciata. Narici. Aria. Cosa vogliono da me?

Sforzo. Con i palmi sfioro un costone di pietra. Solida, reale. Tento di aggrapparmi a una sporgenza. Conficco le unghie tra le crepe della roccia. Strappo. Fitta. Disperazione. Viola e brutale. La presa dei miei aguzzini si fa ancora più stretta. Perché? Perché a me?

Caldo. Il cunicolo diventa sempre più angusto. Abiti lacerati contro le pareti. Abrasioni, sfregi. Brandelli di carne sparpagliati nella melma. Lacrime. Preghiera, bianca e sincera. Abbi cura di me, mio Signore.

Cado a terra. Sabbia. Alghe nei capelli. Inspiro la brezza marina. Fermi, di nuovo. Fine del viaggio. Mi levano la benda dagli occhi. Luce accecante, arcobaleno vorticoso. Mi guardo attorno. Insenatura, grotta. La Cosa.

Terrore, blu e paralizzante. Incarnazione del male. Deserto di tomba.

Inspirava a profonde boccate l’aria frizzantina dell’alba, mentre il sole si affacciava pigro all’orizzonte, una semplice fiammella sbiadita in lontananza. Il cuore pompava a ritmo serrato e i polmoni lo seguivano, assecondandone il battito. Le onde scivolavano lente sulla spiaggia, affaticate dalla burrasca notturna.

Procedeva attento a evitare le conchiglie e gli arbusti, lo sguardo fisso sulla battigia. La risacca aveva portato alla luce i suoi tesori nascosti, ma il pericolo era in agguato dietro ogni scheggia appuntita. Restare scalzo era l’unico vezzo che si era concesso in quel giorno di novembre imbiancato dalla brina. Il freddo contatto con la sabbia sotto i piedi gli trasmetteva scariche elettriche pungenti e regolari, che si irradiavano lungo la schiena e gli attraversavano tutto il corpo. Era vivo.

Contraeva i muscoli in energiche falcate, tenendo il tempo ad alta voce per non perdere il ritmo. Negli ultimi mesi gli era capitato spesso di parlare da solo, sentire la sua stessa voce gli dava conforto. Le prime volte era successo solo quando si trovava davanti allo specchio. Nulla di grave, si ripeteva allora. Con il passare delle settimane, però, le sue condizioni si erano aggravate e più volte si era ritrovato ad apparecchiare la tavola per tre persone, anche quando non aveva ospiti a cena. Poi le voci avevano iniziato a rispondere. Erano almeno in due, un uomo e una donna alle soglie dell’età adulta. Lo conoscevano, lo capivano, ma più di tutto gli tenevano compagnia. Le loro parole amiche e quei toni cordiali, compassionevoli, avevano il potere di tenerlo ancorato alla vita. D’un tratto, però, avevano cominciato a mutare, a marcire dall’interno come infettati dal suo stesso dolore. Era stato allora che aveva deciso di parlarne con uno psichiatra. Il migliore in circolazione, gli avevano assicurato.

L’aria del nord sferzava il viso pallido ed emaciato. Gli occhi scrutavano il suolo, ma la mente vagava lontano. Non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione del dottor Casalin alla fine della prima seduta. L’aveva rassicurato, promettendogli rapidi miglioramenti e una guarigione miracolosa. Aveva addolcito l’inganno tendendo la mano e allungando con discrezione un foglietto stropicciato.

Le pillole avevano sedato le voci, ma non le avevano messe a tacere. Erano lì, pronte ad approfittare della sua disperazione per tessere le loro trame di morte. Bisbigliavano storie di stanze vuote, di giochi abbandonati, di bambine che marcivano nel ventre ligneo di una fossa. Quei sussurri lo torturavano, pizzicando le corde segrete del suo io; erano veleni per l’anima.

Continuava a correre veloce, assaporando la sensazione di libertà che offre il mare d’inverno. Niente ombrelloni dai colori pacchiani, nessun bagnante molesto, stabilimenti malinconici e abbandonati. Erano lui e la spiaggia, tanto bastava.