Ciò che mi ha incuriosito di questo disco non è tanto l’aspetto visivo, né quello lirico. La maschera che nasconde il vero volto dell’artista è un espediente che incuriosisce da sempre gli ascoltatori (dai Kiss, a King Diamond ai nostrani Death SS), così come i contenuti verbali ascrivibili al black metal possono influenzare una fetta di pubblico a rischio di prendere lo spettacolo troppo sul serio (la Rise Above Records di Lee Dorrian, che li ha pubblicati, ironizza: “Particolare attenzione sarà prestata al target, le ricerche suggeriscono che ci sono ampie probabilità si tratti di adolescenti che hanno un vuoto nella loro vita, forse causato da una qualche forma di trauma o turba emotiva”). Ma più che il pubblico adolescente (anche perché l’ingenuità con cui vengono affrontati sia i temi sia le soluzioni sonore è solo apparente), questo album interesserà a chi l’adolescenza se l’è vissuta negli anni ’80, nell’inutile speranza che qualcuno offrisse un pout-pourri della schizofrenia stilistica proposta in quegli anni. La macedonia è stata servita. Con gusto, e senza strafare.

Ad attirare la mia attenzione è stato difatti il particolare amalgama musicale che mischia le suggestioni più disparate, in modo omogeneo, in un elogio alla contaminazione che va dal brit pop dell’epoca aurea al metal più estremo. Se i richiami più immediati sono Mercyful Fate e Blue Öyster Cult, la prima impressione è quella di sentire Simon Le Bon che canta un pezzo dei Black Sabbath (il testo però è dei Dimmu Borgir), ma qua e là si affacciano pure i Megadeth e i Bauhaus, senza tralasciare Angel Witch, Pink Floyd, Jimi Hendrix o il punk statunitense (ma potrebbe starci anche Jean Michel Jarre).

Capito qualcosa?

No.

Allora immergiamoci nel calderone.

Dopo il brevissimo episodio organistico di Deus Culpa, che ci introduce alla nera adunanza, Con Clavi con Dio è la prima testimonianza dell’omogeneo calderone di cui sopra: una cavalcata in pittura sonora verso il festino infernale che si snoda fra richiami doom, psichedelici e del metal più classico. Ritual è indubbiamente il brano di maggior impatto immediato: straniante l’accostamento di melodie tipicamente new romantic (il growl passa quasi inosservato) al “puzzo di morte e sacrifici umani”. Se l’inquinamento di stili denota un’intrigante apertura musicale, anche a livello testuale si percepisce un gusto per i giochi linguistici, dall’assonanza della Nemesis col rituale Amen al contrario, a quell’ “altar bed” che nel primo ritornello si spezza nei beduini e i nomadi che hanno attraversato pestilenze e carestie per portarci “questi antichi rotoli di versi”. Elizabeth (Bathory, ovviamente) ci porta sotto i cieli ungheresi per incontrare una figura che il patto col Diavolo lo ha già stipulato, rendendola di conseguenza “one of us”; giocata vocalmente sui falsetti e l’impatto melodico, si fonda su una struttura che è a ben vedere una delle più aggressive dell'Opus, perlomeno all’interno delle strofe. Il ritornello catchy (e sexy) di Stand by him è impregnato di femminilità, per quanto ci venga narrato che così sarà solo finché le streghe staranno a fianco del loro Maestro. Così Satan Prayer sarà anche una preghiera al Demonio, ma musicalmente è un brano dance (basta fare attenzione al giro di basso ammiccante I was made for lovin you' dei Kiss che si alterna ai versi della strofa) guidato dal sintetizzatore. Le sezioni sono varie, così come molteplici i cambi di valori ritmici, che definiscono la traccia formalmente più progressiva dell’album. Le campane rintoccano e ci indicano che è quasi giunta l’ora che si compia ciò che è stato annunciato in apertura: in Death Knell, l’incedere quando serpeggiante, quando di marcia per il patibolo si apre su un ritornello paradossalmente ‘luminoso’. Forse Prime Mover è apparentemente il brano di minore efficacia, ma se associato alle liriche che chiudono il cerchio della storia narrata, la sensualità della struttura definisce il motore primordiale alla base della discendenza invocata; e se il precedente “rituale” era volto al concepimento dell’Anticristo, viene da chiedersi se la strumentale Genesis finale (in bilico fra il progressive inglese dei primi ’70 e l’elettronica europea di poco successiva) sia da considerarsi una sorta di conclusione ideale di un concept che aveva fatto finta di non manifestarsi come tale.

Sia che, come qualcuno sostiene, dietro il progetto si nasconda lo stesso Lee Dorrian, sia - più probabile – si tratti di uno dei curiosi disegni dello svedese Tobias Forge (Repugnant, Subvision, Magna Carta Cartel), è indubbio che l’avvertimento della Rise - “le composizioni (...) tessono il loro melodico incantesimo nero attraverso i sensi finché l’ascoltatore si ritrova completamente posseduto e aperto a qualsiasi suggestione diabolica” - ha in effetti un suo fondamento metaforico, e ve ne accorgerete quando vi ritroverete a canticchiare ritornelli mefistofelici quasi fossero l’ultima hit di Max Pezzali.

In definitiva, al di là dell’oscurità più o meno allegorica che avvolge il progetto, il disco è più che godibile e nell’insieme accattivante. Ci resta il dubbio che si tratti solo di un divertissement fra personaggi che hanno altri progetti principali a cui dedicarsi e la storia finirà qui.

Sarebbe davvero un peccato.