Se avete visto questo film e vi siete persi tra i piani narrativi, tra le innumerevoli informazioni, tra le caratterizzazioni, i gesti e le parole dei personaggi, non demoralizzatevi, siete in ottima compagnia. Se ancora invece non l'avete visto, permettete un consiglio: non passate 93 minuti a cercare di capire, rischiereste solo di perdervi il film. Non c'è nulla da scoprire. E' proprio la caotica semplicità la forza di questo film.

Distribuito da Onemovie, con la produzione di David Lynch (I segreti di Twin Peaks, The Elephant Man, Una storia vera, Inland Empire), My son, My son, what have ye done si presenta come una commistione e un incontro tra realtà e mito. La follia del mito antico intrecciata alla follia contemporanea. Da una parte, infatti, la trama è ispirata a una storia vera (un delitto avvenuto a San Diego nel giugno 1979), dall’altra richiama  la tragedia sofoclea Elettra, il cui tema principale è il matricidio. Il richiamo non potrebbe essere più esplicito. Brad McCullum, personificato da Michael Shannon (Onora il padre e la madre, World Trade Center, Bad Boys 2), è infatti un giovane attore di successo che si sta dedicando proprio alla messa in scena della tragedia di Sofocle.

Ma proviamo ad andare con ordine, almeno noi.

 

Il film si apre con l'arrivo dei detective Havenhurst e Vargas, interpretati rispettivamente da Willem Dafoe (American Psycho, Antichrist, Platoon) e Michael Peña (World Trade Center, Million Dollar Baby, Fuori in 60 secondi), nell'abitazione in cui un'anziana donna, la signora McCullum (interpretata da Grace Zabriskie, già in Inland Empire e Ufficiale e Gentiluomo) è stata assassinata con una spada orientale. Il colpevole, Brad McCullum, figlio della vittima, si è barricato in un edificio dall’altra parte della strada e ha con sé degli ostaggi. Il detective Havenhurst decide allora di interrogare le persone che conoscono Brad, tra cui la fidanzata, interpretata da Chloë Sevigny (Boys Don't Cry, American Psycho, Dogville), tentando di ricostruire il percorso psicologico che ha portato il giovane alla follia, con particolare attenzione a un misterioso viaggio in Perù.

Da questo momento in poi il film diventa un vero e proprio puzzle che tocca allo spettatore dover ricostruire, scegliendo la strada che ritiene più funzionale. In relazione allo stesso avvenimento, infatti, il regista Werner Herzog (Cuore di vetro, Dove sognano le formiche verdi, Il cattivo tenente) traccia più piste esplicative: quella psicologica, quella cronologica degli avvenimenti e quella che potremmo definire “noumenica”, fatta di misteriose voci e immagini suggestive, quali i fenicotteri rosa nel giardino della madre, la giungla peruviana e gli struzzi. Puro Herzog; anche cambiando panorama, il cineasta non smette di trasfigurare ogni paesaggio o elemento naturale in un'immagine-simbolo dei recessi della psiche umana. L'America viene così esplorata sia dal punto di vista geografico che da quello psichico-sociale, ed è qui che si nota il maggior contributo di David Lynch. Questa attenzione all'elemento psicologico porta però in alcuni casi alla denaturazione dei protagonisti, mostrandoli per quello che sono: personaggi, interpretati da attori.  Havenhurst, per esempio, sembra uno psicologo, un terapeuta che mira a una diagnosi, piuttosto che un detective.

 

A forza di ammassare confusamente avvenimenti, voci e possibili spiegazioni, il film giunge ad alcuni veri e propri, voluti, momenti di saturazione, dove le informazioni raccolte perdono qualsiasi filo logico, diventando semplici narrazioni di fatti, inutili alla comprensione dell'evento attorno a cui ruota tutto il film: il matricidio. In questi precisi momenti il film si ferma, gli attori guardano in camera e i movimenti di macchina vengono rallentati o addirittura annullati. Una narrazione capace di sospendere ogni attività cogitativa, a volte per l'impossibilità di trovare un senso, lasciando spazio all'aspetto emotivo e a un elemento che Herzog ci invita a tenere sempre in considerazione: il caos connaturato alla vita.