Il sole tramontava sul bosco innevato. L’aria era un vibrare rosa arancio che corrodeva la materia. Per pochi istanti, il cielo si fece d’immenso turchese, poi caddero le ombre, pesanti come scorie d’una colossale, lontana esplosione. La lupa si fermò contro il blu notte del cielo. Alzò il capo e annusò. Profumo freddo, indefinibile di neve e morte. Tra le zanne, stringeva il collo disarticolato d’una lepre agonizzante. A momenti, da quel corpo si liberavano scatti nervosi; la lupa sentiva nelle zanne dolci vibrazioni, la lingua assaporava il gusto denso, metallico del sangue. Il passo agile, felpato, riprese il cammino. La tana non era lontana; riusciva ad avvertire i richiami dei cuccioli, ultrasuoni che solo una madre sa captare. Dallo stomaco risalì un sapore buono di carne e sangue predigeriti; aveva già divorato un coniglio selvatico. I piccoli avrebbero mangiato quella notte. Rigurgiterà per loro e mentre si sazieranno, sarà bello sentire agonizzare la lepre in un angolo della tana; calda sofferenza che diverrà nutrimento. Un sibilo, uno scatto del corpo e il labbro superiore della lepre si sollevò in un’ultima smorfia alla morte. Di nuovo, la lupa si fermò. Un riflesso s’accese in fondo alle pupille acciaio. Nella sua mente affiorarono immagini e suoni scomposti. Di colpo, ricordò: aveva già provato quei momenti. Aveva sentito più volte quel richiamo: il richiamo dell’asfalto!

La lupa lasciò cadere la lepre; il capo divincolato malamente dal collo, lo sguardo immobile, vitreo dallo stupore. Annusò ancora: neve, sangue, resine e... asfalto! Ricordava, velenoso c’era un serpente grigio scuro che di snodava nel bosco. Si stava per muovere, quando un’altra forza la bloccò. Se non tornava i suoi cuccioli sarebbero morti. Le altre volte al ritorno, li aveva trovati a brandelli nella tana, putrefatti. Avevano lanciato i loro richiami per ore, finché aggrediti dalla fame dovevano essersi gettati l’uno sull’altro, sbranandosi. Quale era stata la fine dell’ultimo? Aveva strappato la carne dei fratelli morti finché mangiabile o s’era accucciato sperando che la madre tornasse? In ogni caso, non s’era allontanato dalla tana, pur morti al ritorno li aveva ritrovati tutti. La lupa avvertì una fitta di dolore fra le costole, eppure diede le spalle alla tana e s’inoltrò al galoppo tra gli alberi. Tutto si confuse: sangue, vomito, neve, asfalto, tronchi, motori, lampi accecanti. Correndo tra gli alberi innevati, la pelliccia si staccava a ciocche mentre i balzi si facevano pesanti. In spasmi dolorosi, il muso s’appiattì, le ossa si deformarono, le zampe–gambe tendevano a sollevare il corpo. Un grido–urlo e l’ibrido stroncò a terra. Le zampe–braccia, le unghie–dita si stirarono dal dolore lasciando tracce incomprensibili sulla neve. Sensazione di gelo; il pelame era scomparso quasi totalmente. Lunghi capelli biondi s’abbandonavano a terra. Ancora spasmi strazianti e la metamorfosi fu completa. In posizione fetale, la donna sollevò le palpebre e respirò. Un rombo squarciò il silenzio, luci accecavano e veloci scomparivano. Ricordava: era come le altre volte! Il serpente grigio era là, a pochi metri. Il freddo non riusciva a cancellare l’odore stomachevole dell’asfalto. Ne era cosciente, quello sarebbe stato il suo mondo; era diventata un essere umano. Per quanto, non poteva dirlo. Per poche ore, avrebbe provato la sensazione d’avere ancora la pelliccia di lupa, poi i morsi del freddo si sarebbero fatti acuminati come denti di sciacallo. Doveva riuscire a fermare una macchina. Nel ventre sentì un frullare d’ali di pipistrelli che presto si sarebbero mutati in terribili contrazioni. Doveva mangiare. Divorare carne fresca. Umana. Questo era il prezzo per restare in vita e sperare di tornare... belva. Prima di sfamarsi, doveva bere quel liquido la cui delizia le avrebbe fatto dimenticare il tepore della tana, la bellezza della foresta, l’immenso blu del cielo, perfino i gemiti dei suoi piccoli. Lo sapeva, per spezzare l’orrendo incantesimo, doveva bere quella crema dolce, inebriante: il divino latte degli uomini, lo sperma. Grazie a esso, la carne e il sangue caldo sarebbe tornata bestia selvaggia, libera! Due soli paralleli si diressero verso di lei, poi si spensero. Nella retina restarono due dischi di verde acceso. Passi sull’asfalto. Una sagoma si delineò nelle penombre.

– Sta bene?

La donna sollevò il capo e, nelle penombre, le sue pupille acciaio luccicarono.