Bassavilla è la tua Alessandria. Molti autori cercano il sense of wonder fuori dal proprio quotidiano, o fuori dalle proprie radici. Tu invece fai la scelta opposta. Cosa c'è di così inquietante ad Alessandria?

All'apparenza proprio nulla. Alessandria, oggi, è una città che sta percorrendo con una certa velocità la strada verso l'omologazione, l'appiattimento, forse la spersonalizzazione. Soffocata al suo interno e nell'immediata periferia da un coacervo numericamente improponibile di centri commerciali e iper/mega/extra mercati che hanno ridotto in mutande il commercio tradizionale, il che accade in una città essenzialmente popolata da commercianti. Nonché martoriata dall'inquinamento. Gli alessandrini puri sono ormai, a stime super partes, il 10% in un contesto globale di poco inferiore ai centomila abitanti. Capisci bene che parlare di “radici” qui è sempre più dura – in un pianeta che negli anni ottanta si era persino inventato l'”alessandrinità” come modo tipico e peculiare di essere. Il mio, in parte, è un gioco, laddove uso un contenitore a mio parere congruo per quel che racconto, e in seconda battuta è il tentativo di creare una mitologia, inseribile in un contesto più ampio e affascinante, quello del Piemonte gotico e noir, che non è certo una mia invenzione. Le zone “inquietanti” però non mancano. Una per tutte, nell'ultimo ventennio, in pieno centro città, sono accaduti alcuni delitti, cruenti e misteriosi. Nemmeno uno risolto. Però quasi tutti se ne sono già dimenticati e a nessuno frega nulla. E dire che forse uno o più assassini camminano fra noi.

Ritorno a Bassavilla (RaB) è una collezione di piccoli terrori quotidiani. Da dove viene fuori la paura per Danilo Arona?

Sinceramente non ho paura di nulla, a parte il fatalistico timore che più o meno tutti nutriamo nei confronti delle malattie incurabili dai nomi impronunciabili. La paura mi affascina, come elemento antropologico e centrale dei grandi generi popolari e della storia dell'umanità. I terrori quotidiani di RaB sono in buona parte fatti di cronaca, misteriosi e di dubbia interpretazione, su cui mi permetto di svisare, indossando in contemporanea l'abito dello scrittore e quello del cronista.

Qual è il tuo rapporto col soprannaturale? Ci credi?

L'ho frequentato così tanto che sono in grado di affermare che quello che “percepiamo” (per capirci) come soprannaturale sovente “esiste” ed è scientificamente spiegabile. Certo, come in ogni fenomenologia di confine occorre scremare la suggestione dall'oggettività. Però l'approccio “ci credi o non ci credi?” è sbagliato, fuorviante e indigesto. Il soprannaturale abita tanto a Lourdes quanto in diversi castelli piemontesi. E allora? I miracoli di Lourdes sono da tutti accettati, però chi vive un'esperienza medianica è spesso giudicato un mentecatto credulone (e preferisce tacere...). Non vedo la differenza. Io credo a quel che vedo e sento. E ho “visto” e ho “sentito”... cose che voi umani, ma adesso sto scherzando.

Non farti pregare: raccontaci almeno una storia (vera) di ordinario soprannaturale che ti è capitata…

Siccome sono considerato un affabulatore, ti racconto qualcosa che è accaduto di fronte a parecchi testimoni. Nel castello di Piovera, vicinissimo ad Alessandria, all'inizio degli anni settanta. Un luogo bellissimo, tuttora “popolato” di entità che spesso provocano poltergeist ancor più spettacolari di quelli che si vedono al cinema. A farla il più breve possibile, il conte di Piovera, da poco insediato in quella che è tuttora la sua magione (e che divide oggi con una sposa dai notevoli poteri medianici...), ci chiamò al telefono per avere un aiuto nel problema riscontrato non appena messo piede nel maniero, leggi scale a chiocciola smontate, rumori strani, incubi, spifferi freddi in piena estate, insomma il classico repertorio dell'infestazione “soft”. Quando dico “ci”, mi riferisco a un “noi” che evoca un nutrito gruppo di ghostbuster ante litteram, di cui racconto anche in un paio di (comici) capitoli di Ritorno a Bassavilla (La casa dalle finestre che ridono e Il signore delle mosche). Ci presentammo al castello in quella calda notte di giugno che eravamo in una ventina circa (la voce di quella serata fuori dai canoni si era già sparsa per Alessandria e un sacco di amici volevano esserne testimoni, ivi comprese sette o otto ragazze tra le “top” dell'epoca...) e il conte, affiancato da due sventole mai viste, ci fece accomodare in una sala al primo piano. Per l'occasione mi ero trascinato dietro un amico medium (uno che allora faceva il veterinario e, siccome vedeva i morti alla stregua del bambino de Il sesto senso, smise di operare gli animali...) e un medico, perché temevo qualche conseguenza pesante. Dopo i soliti preliminari per mettere a fuoco il problema, optammo per una seduta “aperta”, senza contatto fisico tra la gente in catena. Roba evoluta, con il medium al centro che, andando in trance, metteva a disposizione il proprio corpo per le entità che volessero comunicare in diretta con il conte o con noi. Con pochi passaggi da tecnica ipnotica effettuati con l'ausilio del medico (affinché tutto fosse regolare anche su un piano giuridico...), il veterinario divenne lesso nel giro di pochi secondi e io feci da conduttore. Alla prima rituale domanda “C'è qualcuno che vuole parlare con noi? (non è proprio così, ma sintetizzo...), il medium rispose con voce flebile: “E ' in giardino, sta arrivando”... Adesso tieni presente che era estate, che stavamo tutti al primo piano e che in quella sala due finestre si aprivano proprio su quel giardino: tutti, indistintamente, sentimmo con chiarezza dei passi lenti e strascicati che arrancavano sul terreno cosparso di pietruzze. Ci fu subito uno spostamento di pubblico dalle finestre al centro sala, ma il conte pensò bene di stemperare l'accenno di panico suggerendo che potevano essere i suoi cani. Ripetei la domanda e il veterinario stavolta mi rispose: “Sta salendo”, parlando sempre di qualcuno in terza persona. Considera che la pavimentazione tanto delle scale che della sala in cui ci trovavamo era in legno, purissimo parquet... Alla frase del veterinario, le orecchie di tutti percepirono gli scricchiolii in avvicinamento scalare, come se qualcuno, solido e pesante, stesse salendo. Questa volta la reazione fu di autentico “cago”, comprensibile dialettismo locale, e i testimoni si spostarono di nuovo in massa in direzione delle finestre. Incalzai ancora l'amico Bruno, così si chiama (oggi non fa più il veterinario), e lui mi disse, sempre in terza persona: “E' di là”, intendendo l'anticamera del pianerottolo... Qui, caro Giampietro, puoi credere o non credere, puoi pensare che io stia facendo lo scrittore e stia “ciurlando nel manico”. L'opinione del mondo al riguardo è questione di lana caprina perchè... perchè quel “rumore dell'Altro Mondo” (fammelo scrivere così) lo sentimmo io e altre venti persone. Non si trattava più di passi strascicati su una superficie di legno, ma di enormi stracci zuppi d'acqua o di liquido similare che arrancavano nella direzione del nostro ingresso. Qualcosa che potrei sonoramente descrivere così: swush, splash, swush, splash..., sempre più vicino. Le ragazze urlavano, i maschi berciavano in un coro di “fanculo, chiccazzo è, fatemi legnare quella testa di minchia!”, ma nessuno si spostava di un millimetro. Quando la logica suggerì che il fradicio deambulante stava per varcare la soglia, io chiesi ancora al medium: “Dov'è, Bruno? Adesso dovremmo proprio vederlo”. La risposta risuonò stupefacente, un rutto cavernoso che faceva sembrare la voce di Regan de L'esorcista come quella di Titti il canarino... “SONO QUI!”. Abbandonata la terza persona e urlata “in soggettiva”... Un suono tanto basso e profondo, spaventoso, che sembrava arrivare dalle fondamenta stesse del castello. E non poteva trattarsi della voce di Bruno. Qui m'interrompo. Gli sviluppi che ne susseguirono sono a dir poco emozionanti e ancora oggi, a distanza di tanto tempo, stanno provocando conseguenze. Ma non sono autorizzato a parlarne, perché ci sono troppe sfere private in ballo. Posso solo dire che Bruno ha smesso di esercitare. “Vede” ancora e, con un grande equilibrio spirituale, non va fuori di testa come accadrebbe alla gente comune.

In una parte di RaB sostieni che la santeria, il voodoo, sono cose da non prendere alla leggera. Non ti senti un po' demodé in questo mondo così materiale?

Vale la risposta di prima. Ma posso approfondire due aspetti. Il primo: santeria, voodoo (e Palo Mayombe, se posso...) non sono da prendersi alla leggera perché funzionano in base al tacito patto di complicità, inconsapevole, tra vittima e carnefice. Il secondo: ho 59 anni e non mi sono mai preoccupato delle mode. Seguo una mia strada, convinto che nella coerenza esiste la chiave per affratellarsi con tanti altri miei “simili”. A Bassavilla – per restare in argomento – mi amano proprio per questo. Qualcuno magari mi detesta, ma questo fa parte delle controindicazioni dello scrivere e del diventare, di conseguenza, personaggi pubblici. Infine, per quanto scriva romanzi “metafisici”, apprezzo il sano materialismo epicureo.

E' proprio necessario trovare un rapporto con l'inspiegabile, il soprannaturale, per rendere più "appetibili", letterari, diciamo, certi fatti di cronaca?

Necessario, assolutamente no. Mai detto né sostenuto. Dico e sostengo che l'inspiegabile e il mistero occhieggiano dalla cronaca di tutti i giorni, basta sfogliare qualsiasi giornale. E questa è la linfa “basica” del genere narrativo che propongo, quello “tutto mio”, parafrasando Evangelisti. E non da oggi, se posso ricordarlo: ci feci persino un editoriale per “Aliens” (Armenia Editore, fine anni settanta), partendo dal profondo mistero di un fatto eclatante come il suicidio collettivo della Guyana, quello che riguardò la setta del reverendo Jim Jones. “Suicidio”, insomma, non proprio...

Che accadde, davvero, a Jamestown?

Non lo so. Come potrei saperne? Me ne stavo di qui, dall'altra parte del globo, e neppure pensavo in quel momento che avrei dedicato parte della mia vita al giornalismo. Allora ci fecero vedere più di 900 cadaveri, tutti ben allineati e composti, e ci raccontarono che si trattava di un suicidio di massa. A me colpirono le dinamiche “misteriose” di un accadimento del genere. Peraltro che si tratti di una storia torbida, mai veramente spiegata e con intrallazzi politici a chissà quale livello, lo dimostra il fatto che ancora oggi il massacro della Guyana è coperto da segreto di stato. Di certo – non lo dico io – tantissimi, tra quei 900, vennero uccisi. Ma da chi? E perché?

Che rapporto c'è o potrebbe esserci fra il tuo mistery e la fantascienza?

Un comun denominatore potrebbe essere proprio la paura. Sono ambedue generi “di tensione”. Del resto la fantascienza nasce storicamente come costola del gotico.

Come mai, secondo te, il mistery, o l'horror, sono più popolari oggi della fantascienza?

Credo che il discorso sulla minor popolarità della fantascienza sia pertinenza quasi esclusiva della letteratura. Al cinema la fantascienza “tira” ancora. Sulla carta stampata ha perso molto del suo fascino, un po' perché certe tematiche dei decenni trascorsi - soprattutto quelle tecnologiche – hanno debordato nella cronaca quotidiana. Poi molti grandi maestri se ne sono andati e non ho visto rimpiazzi. Per l'horror, il discorso è più complesso e non facilmente riassumibile in poche righe: di certo come genere popolare si aggancia di più alle attuali paure del mondo occidentale perché quest'ultimo da alcuni anni teme soprattutto un nemico senza volto, mutaforma, in grado di metamorfizzarsi nel nostro tessuto sociale. Che sia il kamikaze islamico o il disastro economico nel quale stiamo allegramente nuotando, il fatto è che il domani, ogni domani, si è trasformato in un gigantesco punto interrogativo. Zombi e vampiri diventano così metafore appropriate.

In RaB scrivi che di Stephen King hai fatto "indigestione". Eppure il tuo modo di evocare la paura dal quotidiano ricorda molto il suo. Quali sono gli autori con i quali ti senti più familiare?

Se ricordo King, mi spiace e faccio ammenda. E mi spiego: in una recente intervista rilasciata all'amico Eduardo Vitolo, ho dichiarato testualmente che per gli scrittori italiani è un autogol riferirsi a King e agli americani, perché i “nostri” vivono su un altro e diversissimo pianeta. Visto che rivendico la coerenza tra le mie doti, trovo giusto ricordarlo. La verità è un'altra e te lo dice uno che ha scritto un libro proprio su King, Vien di notte l'Uomo Nero, stravenduto soprattutto in edicola. Esiste tutta una generazione, tanto in America quanto in Europa, che oggi viaggia tra i cinquanta e i sessant'anni, che si è abbeverata – per quel che riguarda le fonti anglosassoni - alle stesse sorgenti formative: The Twilight Zone, Lovecraft, Richard Matheson, Ray Bradbury, la Hammer, Robert Bloch, insomma tutto quello che è stato prima di King. L'horror, e soprattutto quel “certo modo di evocare la paura dal quotidiano”, non vengono da King, anche se qualche improvvido blogger pensa il contrario. King è un grandissimo scrittore che ha avuto il talento di raccontare l'horror tradizionale alla Hemingway o alla Faulkner, attraverso l'epica storica dell'orgogliosa appartenenza a una nazione... Che ci azzeccherebbe un italiano con King? Siamo seri. Le analogie di “atmosfera”, quando ci sono, sono puramente casuali.

La tua scelta con Edizioni XII significa che per te il piccolo editore è l'editore ideale?

Non ti so rispondere. Daniele (Bonfanti) è un mio amico. Io non ho scelto di lavorare con lui. Lui mi ha scelto e ha selezionato persino le “Cronache di Bassavilla” da infilare in questo libro. Io le ho montate in un certo modo, aggiungendone una prodotta “ex novo”. Non prima – Daniele può renderne testimonianza – di avere tentato di dissuaderlo dal procedere... Scherzi a parte, non ho idea di chi sia l'editore “ideale”. Se ti riferisci alle dimensioni ristrette come ambiente lavorativo particolarmente ricco e stimolante dal punto di vista umano, la mia recente esperienza – tuttora in corso – con Gargoyle Books è quanto mai positiva, per non dire di più... Sotto questo profilo, il piccolo editore è del tutto consigliabile. Ma, per la professionalità messa in campo, Paolo De Crescenzo è un “grande” editore. E Daniele, per quel che ci ha fatto vedere sino a oggi, non gli è da meno... I libri delle Edizioni XII sono prodotti di rara bellezza grafica. La copertina di Ritorno a Bassavilla meriterebbe, lei da sola, un saggio a parte...

In RaB scrivi anche di essere un cinefilo e dai un quadro desolante del pubblico che oggi frequenta le multisale. Siamo noi che stiamo invecchiando, oppure è vero che oggi viviamo una fase di imbarbarimento complessivo?

Non voglio suonare come un vecchio trombone che si lamenta dei ragazzini sociopatici. Vivo in mezzo ai ragazzi. Non sono tutti così, per fortuna. Se una parte di loro si esprime attraverso il vandalismo e la rottura di palle al prossimo, esiste una generazione parentale che deve porsi una serie di domande. Poi il discorso del degrado reale nella nazione – interno ed esterno, psichico e urbano, in alto e in basso – è troppo complicato per potermela cavare con una battuta o un elzeviro. Invecchio? A qualcuno non capita? Non c'è nulla da fare... ma forse il pianeta, se non invertiamo bruscamente la rotta, schiatta prima di me.

A quando un tuo nuovo romanzo, e quale paura andrai stavolta a scavare?

Dopo un'esperienza intensa e, per certi versi, devastante sul piano personale quale L'estate di Montebuio, ho intenzione di riposare e di dedicarmi solo alle “commissioni”. Il che significa un nutrito elenco di racconti per varie antologie, e un saggio di cinema. Come torno in forze, mi fiondo di nuovo sul progetto Bad Winds, dedicato ai “venti cattivi” che nel pianeta provocano disastri. E naturalmente continuo la collaborazione a “Carmillaonline” con la rubrica La luce oscura, che si sta gradualmente trasformando in una sorta di “orologio dell'Apocalisse”: i pezzi che ho pubblicato sulla webzine di Valerio Evangelisti si sono sempre trasformati in operazioni letterarie molto fortunate, da Cronache di Bassavilla a L'estate di Montebuio, ivi passando per Ritorno a Bassavilla. Temo che capiterà qualcosa di simile con La luce oscura.