Un album atteso da troppo tempo, per non essere ascoltato immune da pregiudizi. Se ne parla da mesi come di un probabile - quasi sicuro - ennesimo passo falso della band, da sommare a quel St.Anger che, col voler resuscitare a forza i Metallica di un tempo, ha finito per farli diventare la caricatura di se stessi.

Ma è stata l’anteprima della copertina, bianca, a far sperare qualcuno. In contrasto con la veste del Black Album, picco creativo della ‘giovinezza’ della band pre-discesa, si è presentata da subito quasi un simbolo di rinascita, apice speculare della maturità.

That was just yout life, è la partenza. Le sonorità riecheggiano quelle del Black Album. Già questo ci disorienta (o ci dà una conferma). L’arpeggio zoppicante, che non si capisce dove andrà a parare, si apre dopo lunghe indecisioni su un riff lentissimo, ma di un’aggressività insospettabile. La lentezza si trasforma ben presto in un riff più definito, che potrebbe essere uscito da Kill’em all, cantato compreso. Il brano si protrae per oltre sette minuti, insinuando nella mente dell’ascoltatore la costruzione riff/batteria che si srotola in un assolo velocissimo e decisamente thrash, per quanto i detrattori degli ultimi anni possano protestare.

La prima traccia, tuttavia, non convince del tutto, mancando quel pizzico di fraseggio melodico (chitarristico o vocale che sia) - anche impercettibile - che riesce a far distinguere i Metallica pure all’interno delle costruzioni più dure. Discorso analogo vale per la seconda, The End of the Line, ancora più estesa. Pur contenendo un ottimo riff dall’andamento sinuoso, presenta un cantato poco efficace, troppo teso a richiamare qualcosa che c’è già stato (non a caso il testo verbale ripete a più riprese la frase “The slave becomes the master”), ma che non si è riusciti a ricreare con la stessa magia. Affascinanti i passaggi chitarristici in contrappunto, la sezione ritmica compie un lavoro superbo, il pezzo, tirate le somme, è ottimo, ma manca ancora il ‘quid’. Ascoltatele e riascoltatele, ma non diventeranno mai una qualsiasi apertura che va da Ride the lightning al Black Album.

Il terzo passo (Broken, Beat & Scarred), da un certo punto di vista, può anche apparire il più sempliciotto dell’album, ma è proprio qui che i conti cominciano a quadrare. Corposo, duro e melodico al tempo stesso, è il brano in cui possiamo finalmente riconoscere la band per quello che è adesso, senza avere il dubbio di ascoltare un tributo alla prese con un inedito. L’organico si dimostra più amalgamato, gli stacchi ritmici sono di una precisione impeccabile, le sezioni strumentali pronte per riproduzioni live, gli episodi in dissonanza divertenti, insomma, siamo ormai entrati nel vivo dell’ascolto e i Metallica, insperatamente, ci sono.

Ma ecco che inciampiamo nel brano scelto come primo singolo: The day that never comes. L’introduzione è composta da un arpeggio dal retrogusto esotico e da una frase melodica, a opera della chitarra, aperta e struggente, che si risolve al secondo passaggio in episodio solista che richiama palesemente l’assolo iniziale (sfumatura sull’arpeggio inclusa) di Fade to black. Si tratta di un brano che verrà amato da chi ha continuato a sostenere i Metallica anche nell’era Load e ReLoad (ricordiamo che, in quest’ultimo, era proprio Fade to Black il pezzo rievocato in The Memory Remains), ma che si sviluppa in una lunga sezione strumentale dagli accenti che trascolorano nel drammatico e tagliente, più vicini senza ombra di dubbio a opere precedenti quali ... and justice for all, per cui è consigliabile che chi sta scuotendo la testa prosegua nell’ascolto. Metaforico inno a comprensione e tolleranza fra esseri umani vuole, forse, configurarsi quale un prosieguo a quell’ironico Don’t tread on me che, a suo tempo, venne rivolto a Bush senior.

La traccia da incubo arriva con All Nightmare Long, un pezzo che affonda nel thrash, con tutte le sue cavalcate ritmiche di rito, filtrato attraverso i suoni odierni (soprattutto per quanto riguarda la voce, che si dipana in fraseggi di più difficile esecuzione, rispetto ai canoni del thrash originario). La sezione ritmica prende raramente fiato - e, quando lo fa, si precipita in stacchi imprevisti - e la chitarra solista dà forse il meglio di sé all’interno dell’intero lavoro. Senza dubbio, uno dei brani più riusciti.

La batteria si rilassa (in relazione ai valori ritmici assegnati all’andamento, non alle vertiginose rullate) in Cyanide, tipico pezzo ‘serpeggiante’ (il riff primario è indimenticabile sin dal primo ascolto), in pieno stile Metallica, avvicinandosi alla traccia probabilmente più attesa dell’album, ovvero il terzo capitolo della ‘saga’ The Unforgiven. Stavolta siamo sorpresi da un’introduzione con organico di piano, archi e fiati - presto però risolto in accompagnamento elettrico, con rare intrusioni degli archi - e dal fatto che le sonorità non ricordano in modo troppo esplicito i due brani precedenti, fatta eccezione per l’andamento, i testi verbali (“In remembrance I relive/And how can I blame you/When it’s me I can’t forgive?”), lo sviluppo dell’assolo e il congedo sospeso. Un brano che risulta comunque di buona qualità, anche svincolato dagli altri due.

The Judas Kiss ci riporta in un’atmosfera più cruda (non a caso il testo allude alla caduta delle Torri Gemelle), configurandosi come la prima parte di un finale a tre che accontenterà l’osso duro legato agli esordi del gruppo, pur se con incursioni in uno stile più recente. Le scale della chitarra solista e i giochi ritmici fra rullante e piatti ci riportano ad architetture passate, senza mimarle. Stesso discorso vale per Suicide & Redemption, composizione strumentale (che nella tradizione dei Metallica ha visto il suo diamante in The Call of Ktulu) ossessiva e interminabile, volta addirittura alle origini del metal, in cui il cantato è svolto magistralmente dalla chitarra solista, ma soprattutto per la finale My Apocalypse (che con i suoi ‘soli’ cinque minuti è il pezzo più sbrigativo dell’album), aggressiva conclusione degna dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Un’Apocalisse che porta morte e distruzione, ma non indifferentemente come l’evento biblico. La ‘Morte Magnetica’ è quella da cui alcune persone sono attratte come una calamita, “uomini che vengono trascinati dalle loro stesse professioni” ha dichiarato Hetfield, “come i martiri del rock”.

Death Magnetic, dunque, è un disco che, da un lato, ripercorre l’intera storia stilistica e concettuale dei Metallica e, dall’altro, risulta omogeneo e ben costruito nella sua totalità. Certo, non possiamo più aspettarci Master of Puppets, così come non potremmo più aspettarci Paranoid dai Black Sabbath, ma si tratta comunque di un lavoro di tutto rispetto, godibile e di ottima qualità. Dimentichiamo le barzellette su St.Anger. Qui, i Metallica si sono lasciati andare per quello che sono adesso, con la morbidezza degli anni che passano, unitamente alla durezza connaturata.

Non è un disco di facile ascolto, né di presa immediata (fatta eccezione per il primo estratto), ma già una seconda riproduzione ne svela finezze e sfumature da considerare più che interessanti, e sospetto che lascerà indispettiti tutti coloro che si erano già preparati a gridare allo scandalo.

Bentornati Metallica!