Non è raro imbattersi in recensioni riguardanti i Depeche Mode che si aprono col teorema relativo al loro sapersi continuamente rinnovare pur restando fedeli a se stessi; più raro, purtroppo, è trovarne la dimostrazione. Limitando i giudizi soggettivi, cercheremo dunque di evidenziare track by track quali sono le effettive contaminazioni originali, i dati interessanti e gli specifici richiami al passato.

La prima traccia di Playing the angel (A pain that I’m used to) si apre con un tema elettronico atonale al limite tra popular e colta contemporanea. L’incedere ossessivo e ipnotico, sullo stile delle ultime composizioni, è poi sapientemente combinato a sonorità più datate. I giochi rumoristici ricompaiono a chiusura del ritornello e lo stesso succede puntualmente anche dopo il reprise successivo. La costruzione è matematica ma, anche se estremamente razionale, non risulta gelida, grazie alla tipica vocalità di Dave Gahan. Un elegante bianco e nero.

Il colore arriva con John the Revelator, così come i rimandi stavolta alle timbriche di Music for the Masses. Siamo dunque ancora alle sonorità ritmate e sintetiche degli anni ’80, ma il ritornello ha un retrogusto gospel: il titolo richiama un traditional che qui suona come un’intrusione ironica, irriverente maschera della protesta politica. Le parti più catchy sono alternate a futuristiche sezioni sperimentali in dissonanza e il brano, così confezionato, appare decisamente originale, nonché uno tra quelli di maggior presa immediata.

Con Suffer well si passa, all’interno di un unico brano, dalla plastica spigolosa di Speak & Spell alle atmosfere funeree di Black Celebration. Lo spazio compositivo lasciato da Gore a Gahan (e questo ne è il primo esempio) fa emergere a questo punto uno degli aspetti più interessanti dell’intero lavoro: le composizioni si amalgamano perfettamente l’una all’altra pur portando in calce firme diverse e l’omogeneità del disco non viene meno.

Le sperimentazione che si è affacciata sin dall’inizio, in The sinner in me comanda una costruzione solo apparentemente semplice. Lo schema strofa-ritornello è sostituito dalla combinazione chorus (è il testo verbale d’apertura che si ripete), bridge e una sezione melodicamente più aperta e distesa (soluzione largamente sfruttata dal gruppo, da People are People a I feel you) che prefigura Precious. Il primo singolo tratto dall’album è sicuramente il pezzo di più facile ascolto. Gli asciutti giochi ritmici si fondono ai morbidi riffs tastieristici nello stile tipico della band, creando un’atmosfera inconfondibile e al tempo stesso attuale, in cui l’espressività di Dave Gahan raggiunge livelli di finezza esemplare. Lo spostamento d’accento nelle sezioni strumentali crea una sensazione di instabilità, che ci proietta verso qualcosa di diverso…

La tradizione di affidare alla voce di Gore (salvo alcuni episodi all’unisono in cui il compositore resta comunque in primo piano) i motivi sostenuti da semplici frammenti d’effettistica percussiva (di valore ritmico tendenzialmente ampio) pare non essersi ancora spenta e, senza dubbio, ai brani più introspettivi ed esistenzialisti, i toni sofferti e delicati di Gore meglio si adattano rispetto a quelli sinuosi e cupi di Gahan. Ed è quello che succede in Macro, dove quel Thundering rhythm evocato anche dalle liriche, ci regala un momento di pittura sonora veramente suggestivo.

Con la sommessa I want it all la fusione tra i brani di Gore e quelli di Gahan appare ancor più evidente, ma ci addentriamo anche nella parte più impegnativa dell’album, quella che chiede di essere ascoltata nuovamente per farsi apprezzare appièno. Tutto potrebbe apparire scontato, dalla classica crisi esistenziale cantilenata in forma strofica in Nothing’s impossible, alla ballata romantica Damaged people, in cui la voce di Gore riappare forse in modo un po’ troppo prevedibile. L’interludio strumentale di Introspectre ci ricorda però di focalizzare l’attenzione sulla sperimentazione elettronica e la concezione di brano inteso come ‘territorio da esplorare’; attraverso lo scorrere delle tracce ci siamo infatti ritrovati immersi un ambiente sonoro sempre più avveniristico.

Lilian ci riporta infine alle timbriche dei primissimi lavori; se in merito alla struttura e al sound il brano può deludere, la seducente melodia lo redime e fa da apripista alla chiusura buia e languida (maledetta?) di The darkest star.

I soliti recensori in vena di amarcord criticheranno aspramente questo lavoro; nel frattempo la quasi totalità dei musicisti emergenti e non (di ogni genere, caso rarissimo) inserisce i Depeche Mode tra i suoi modelli (principalmente artisti morti o che hanno intrapreso negli anni carriere soliste): loro sono ancora qui, con un disco di tutto rispetto; oltre a regalarci ottimi brani, evidentemente potranno ancora insegnare qualcosa a qualcuno.

Tracklist

1. A Pain That I'm Used to

2. John the Revelator

3. Suffer Well

4. The Sinner in me

5. Precious

6. Macro

7. I Want it all

8. Nothing's Impossible

9. Introspectre

10. Damaged People

11. Lilian

12. The Darkest Star