La macchina da presa ruota su un’illustrazione della Notte stellata di Van Gogh; l’inquadratura si allarga e si nota che si tratta di un puzzle a cui manca un solo tassello, che viene aggiunto da un uomo (Matt Foyer), internato in manicomio, che sta raccontando una storia a un indefinito ascoltatore (John Bolen). Era stato designato come esecutore testamentario dal defunto zio, il professor Angell (Ralph Lucas), il quale aveva svolto una personale indagine a seguito di una serie di strani fatti fra loro correlati in modo inquietante, rivelandogli una spaventosa verità che aveva portato lui e le altre persone implicate alla follia o alla morte…

Con questo prologo che fa sobbalzare ogni appassionato di Lovecraft, inizia il primo adattamento cinematografico della storia del Richiamo di Cthulhu. Lavorando nel giardino di un socio della H.P.Lovecraft Society e in qualche cantina, gli autori girano un film muto ed espressionista, come se fosse uscito all’epoca di Lovecraft, riuscendo a ricreare con la stessa abilità le strade di Providence negli anni Venti e i megaliti non euclidei di R’lyeh. Questo straordinario sforzo compiuto da dilettanti e amatori sfocia in un’opera particolare, sinceramente appassionata e fedelissima al soggetto originale.

Andrew Leman, Sean Branney e il resto della HPLHS conoscono piuttosto bene l’arte figurativa contemporanea a Lovecraft, dal momento che nel film ci sono molti dettagli degni di nota: l’idolo in perfetto art déco scoperto nella palude in Louisiana dall’ispettore Legrasse (David Mersault), le prospettive forzate e futuriste delle scene oniriche, il prologo e l’epilogo che ricordano molto le cornici narrative dei film dell’epoca.

The call of Cthulhu diviene dunque anche un originale e consapevole tributo al cinema espressionista, oltre che un momento di riflessione su Lovecraft e sulla sua rappresentabilità, che in questa occasione sembra particolarmente azzeccata, inedita ed efficace. In alcuni aspetti della realizzazione tecnica si trova qualche difetto, sebbene non sia detto che si possa considerare tale, data la natura di omaggio del film e la produzione completamente amatoriale. Cthulhu, per esempio, è realizzato interamente a passo uno, ma risulta poco credibile e del tutto inefficace come mostro e rischia quasi di svilire l’apice emotivo di tutta la storia. Se lo si pensa come se fosse stato realizzato negli anni Venti, si può anche soprassedere sul suo aspetto e accettarlo come citazione tecnologica, sebbene una maggiore considerazione alla credibilità del mostro e delle sue movenze avrebbe ulteriormente innalzato il livello di questo film.

Altro difetto abbastanza palese, questa volta senza molte scusanti, è la fotografia: poco incisiva, dotata di una scarsa gamma di grigi, a tratti troppo artificiale e “digitale”, con l’effetto di un generale appiattimento delle riprese, le quali per altro sono piuttosto ben realizzate. Alcune trovate scenografiche, infine, come il telo agitato che rappresenta il mare, sono abbastanza ridicole, ma anche qui può valere l’ipotesi della citazione tecnologica.

Lasciando da parte questi difetti, che per le ragioni viste prima restano in parte scusabili, emerge sopra tutto il lavoro dello sceneggiatore Sean Branney, che rappresenta uno dei maggiori punti di forza di The call of Cthulhu. I momenti salienti del racconto sono adattati con grande scrupolo e impreziositi da celebri citazioni di Lovecraft, magari pronunciate da un personaggio o scritte fra le righe di una lettera. Molto suggestive risultano alcune sequenze altamente simboliche, che citano a piene mani gli autori espressionisti, come i sogni di Wilcox, che rimandano alle ipnagogie dello Studente di praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye o come la cornice del manicomio che ricorda molto quella del Gabinetto del dottor Caligari. Bellissima a tale proposito l’inquadratura iniziale, ove la macchina da presa ruota su un puzzle de La notte stellata di Van Gogh, alludente ai “tasselli” che il protagonista, degente in un ospedale psichiatrico, andrà a ricomporre durante l’indagine di cui racconterà. Nel finale, il puzzle viene rotto dallo stesso personaggio, poiché egli evidentemente non vuole più “correlare tutti i contenuti” di ciò che ha appreso e ritorna nella sua “placida isola di ignoranza” in un “nero mare d’infinito” rappresentato dalla buia porta dentro cui scompare, trasportato all’indietro su una sedia a rotelle.. Il prologo e l’epilogo di The call of Cthulhu, oltre a citare Il gabinetto del dottor Caligari, pongono allo spettatore gli stessi interrogativi del film di Wiene: quello che si è visto è una fantasia malata, il sogno di un pazzo, oppure il narratore ha ragione e dobbiamo sperare nella “pace e nella sicurezza di una nuova età oscura”? Questo The call of Cthulhu della HPLHS è un film pienamente devoto al racconto di origine, ma soprattutto alla poetica e alla Weltanschauung di Lovecraft.