Seguendo fedelmente il trend di questo scorcio di stagione cinematografica, Land of the dead, l’ultima attesa fatica di George A. Romero, ha nettamente diviso pubblico e critica: c’è chi grida al capolavoro (l’ennesimo, ormai il cinema sembra potersi esprimere soltanto tramite capolavori e ne rigurgita ogni giorno, senza soluzione di continuità), chi plaude al ritorno del regista “ma…”, chi si arrampica sugli specchi mediando curiosamente entusiasmo e delusione, chi tenta interpretazioni funamboliche al di là addirittura di quelle espresse dall’autore e chi, con quel pizzico di perversione che è tipico di quasi tutti i critici, ha decisamente e definitivamente sradicato Romero dal suo genere di appartenenza per collocarlo nel mainstream.

Di quanto letto finora, fatta una necessaria scrematura, temo sia doveroso eliminare il fin troppo affettuoso commento di un critico statunitense che è arrivato a leggere il “capolavoro” filtrandolo addirittura attraverso le pagine di John Steinbeck: con il massimo della buona volontà, e pur riconoscendo al Lennie protagonista di Uomini e Topi un certo aspetto sonnambulesco e un po’ rincitrullito tipico del morto vivente cinematografico, difficilmente riesco a immaginare zombie intenti a coltivare paciosamente campi di alfalfa per pascere teneri coniglietti.

Di fatto, nel corso della sua quarantennale carriera, Romero ha realizzato, oltre a questo, tre altri soli film sul tema che l’ha reso celebre - La notte dei morti viventi, Zombi e Il giorno degli zombi – più che sufficienti, comunque, per renderlo leggendario e facilmente riconoscibile in un panorama variegato come quello del cinema horror.

Il fatto, poi, che il regista consideri la sua ultima fatica una sorta di anello di congiunzione tra la “vecchia” trilogia – per chi piace considerarla tale – e un nuovo progetto in fieri dello stesso respiro, la dice lunga sull’affetto di Romero nei confronti dei suoi mostri.

I vent’anni di intervallo che intercorrono tra il suo penultimo zombie-movie e Land of the dead dimostrano quanto spazio l’autore abbia lasciato ad altri colleghi e quanto abbia riflettuto prima di tornare alle origini.

Il papà degli zombie (o, più correttamente, il loro talent scout, in quanto le creature in questione deambulavano stolidamente da sempre nel cinema, sia pure mostrando gusti gastronomici meno repellenti) è regista e scrittore astuto, sagace e molto allenato a quel bene prezioso che è l’autoironia, sfoggiata spesso quando vuole mascherare la scarsa convinzione in un progetto dietro una conclamata pigrizia.

La catalogazione schematica delle opere di un autore è spesso fonte di equivoci: in un errore simile a quello verificatosi per Romero, incappa da sempre – sebbene in altro genere specifico – anche John Ford considerato “soltanto” regista di western senza tener conto che tra Iron Horse (1924) e Stagecoach (1939) intercorsero ben quindici anni e numerosissimi film di vario, ma non per questo meno interessante, genere. Limitandosi, quindi, alle pellicole più celebri e celebrate di Romero, si rischia di lasciare in disparte variazioni tematiche estremamente interessanti e, a volte, più creative: personalmente ho molto apprezzato il suo Martin, geniale scorribanda nel cinema gotico (con interessanti e non peregrini risvolti psicoanalitici) misteriosamente scomparsa dalla programmazione televisiva e ribattezzata a suo tempo in Italia, una tantum con una certa sapienza, Wampyr, quasi a rimarcare i debiti della pellicola verso il celebre capolavoro di C.T. Dreyer.

Romero non si considera un maestro ma un onesto e capace artigiano dedito soprattutto a divertire il pubblico; quali che siano poi le reazioni della critica di fronte ai suoi film, quanti fiumi di inchiostro si possano versare sulla Fenomenologia del Morto Vivente Come Parabola Della Realtà Odierna (o qualcosa di simile che certo esiste già, non prendetemi alla lettera), sia pure dietro sua istigazione, non lo riguardano più di tanto e magari si limita a ridacchiare per la riuscita del suo scherzo.

I richiami politici e sociali non sono mai mancati nei suoi film così come, in varia misura, in quelli di Carpenter e Craven (un po’ meno, forse, in Hooper e Raimi, restando fermi agli innovatori, o meglio rinnovatori, del genere), ma limitare a questo la visione di Land of the dead o di altre sue pellicole rischia di apparire fuorviante.

“Gli zombie sono un gruppo rivoluzionario, vedono le cose in modo diverso”; d’accordo, se è lui a dichiararlo.

“Ho sempre simpatizzato per gli zombie… Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che… si ribella. La notte dei morti viventi è del ’68, ora i nostri ideali sono morti, il ’68 è fallito e io sono uno zombie”; lecito e chiarificatore, nulla da eccepire.

Quanto poi al suo confessarsi apertamente “dalla parte degli zombie”, più che una dichiarazione d’intenti sembra la classica scoperta dell’acqua calda: da che horror è horror, il pubblico, così come l’autore, è stato sempre e comunque dalla parte del mostro di turno e non del suo aspirante distruttore, di fatto un film si chiama Dracula e non Van Helsing (visto poi l’ultimo, diretto dal pestifero Sommers, non ci mancherebbe altro che questo), oppure La notte dei morti viventi e non La veglia di alcuni tizi effettivamente viventi che non vogliono farsi mangiare crudi, e via di questo passo.

Appurato ciò, vorrei comunque mettermi dalla parte del pubblico di film horror per una breve carrellata in cui, però, sarà giocoforza deragliare dallo specifico “romeriano”: tutti siamo stati – parlo quantomeno della mia vetusta generazione, equiparabile ormai ai Grandi Antichi lovecraftiani – appassionati di cinema dell’orrore, quanto di più comodo nell’arte ormai forse tramontata della “seduzione in sala di seconda visione (o arena estiva nel caso di fugaci flirt vacanzieri)”, così detta perché raramente i film dell’orrore godevano delle prestigiose sale di prima riservate al cinema “alto”, quello serio e a volte anche un po’ presupponente e noioso.

Dracula, l’Uomo Lupo, il Mostro venuto da non si sa dove, lo Zombie erano abili complici e testimoni delle nostre goffe manovre nell’oscurità: l’insegna sinistramente cigolante di una locanda transilvana, l’ululato nel bosco, il morto vivente affamato che sfondava la porta, l’immancabile primo piano di Christopher Lee a canini snudati volevano comunque dire “Ecco, ragazzo mio, sta per arrivare qualcosa di particolarmente efferato per cui lei lancerà un gridolino e ti nasconderà il viso sulla spalla, regolati tu…”. Che poi la lei di turno sapesse sempre come comportarsi in risposta ai detti segnali resta un mistero più fitto dell’identità di un serial killer negli horror moderni; in ogni caso la capacità critica, le interpretazioni più o meno credibili e/o dimostrabili, i problemi esegetici (meglio Hammer o Universal, Bava, Fisher o Argento?) sono arrivati molto tempo dopo.

In definitiva, lo scopo di un film di questo tipo è quello di divertire gli appassionati e, perché no, anche i cultori più tiepidi (io, pur non disdegnando, continuo a prediligere i vampiri) senza creare problematiche eccessive che fanno soltanto perdere di vista lo scopo finale.

Romero resta il miglior regista del suo genere e, quale che sia il risultato che ottiene, l’importante è che si mettano un po’ in riga gli epigoni e gli imitatori di molta buona volontà e scarsa fantasia esecutiva.

Ritengo sia difficile creare qualcosa di veramente ed effettivamente nuovo sul tema, così come ritenere Land of the dead "the ultimate movie", il film definitivo, come qualche entusiasta ha azzardato; l’importante, tutto sommato, è che Romero abbia già in cantiere una nuova trilogia sugli amati morti viventi e che potremo ancora vedere in futuro qualcosa che, se non proprio latore di novità, sarà quantomeno piacevole e ben realizzato.