Jonathan Rivers è un architetto che ha tutto dalla vita: una moglie magnifica, autrice letteraria di successo, un figlio (dal primo matrimonio) vispo e in gamba, un ottimo lavoro, una splendida casa e nessuna nuvola all’orizzonte. Quando la moglie sparisce, e per alcune settimane non si riesce a capire se sia stata rapita o se sia affogata, l’uomo cade nella più profonda depressione, aumentata dal fatto che ne viene ritrovato il cadavere qualche tempo dopo.

In tale stato di debolezza psichica Jonathan si aggrapperebbe a tutto pur di sopravvivere, e quando viene introdotto ai fenomeni EVP l’architetto impiega ben poco a credere ciecamente a questo mondo fatto di voci confuse e ombre che emergono dai televisori non sintonizzati. Ma le cose si complicheranno con l’entrata in scena di spiriti (o uomini?) malvagi…

Michael Keaton è uno di quegli impressionanti architetti giovani e di successo che scarabocchiano distrattamente i loro grandi progetti (interi quartieri di città) in cucina, fra una bottiglia di vino e i fornelli, in piedi, con l’aiuto di un solo, misero righello. Beato lui.

La sua compagna è brava, bella, buona, geniale, ricca e pubblica romanzi di successo, ma quando si imbarca in automobile e lui non riesce a sentire il suo ultimo saluto, da gran volpi cresciute a pane e cinema, capiamo subito che succederà qualcosa di brutto, di “fatale”.

E dopo?

Dopo è una ridda di immagini risapute, di continue insistenze dall’alto (quasi a farci capire che c’è qualche Dio che ci osserva), di poliziotti che entrano con il cappello in mano per darci la funesta notizia, di televisioni che fanno entrare e uscire il mondo dalla nostra vita. Tutto, ahimè, come da manuale new age e tutto condotto senza convinzione da persone alle prime armi con la macchina cinema, imbarazzate e incapaci di risolversi a prendere una decisione precisa.

Giriamo un film soprannaturale? Allora via con volti confusi e ombre inquietanti, di stanze buie e di toni fra il cinereo e il bluastro.

Uh, ma siamo americani, cerchiamo di dare se non proprio una spiegazione, almeno una veste razionale al tutto! E allora ecco il mistery, il serial killer movie che fa capolino e abbaia i suoi incastri temerari e poco riusciti (come in ogni noir dal maledetto anno domini 1995, ci regalano perfino una sbirciata dell’assassino ben prima della fine della vicenda!). E la pellicola caracolla trascinandosi fino alla fine queste indecisioni.

Intrappolato in una sorta di estetica da Mulino Bianco subacqueo, White Noise soffre della sindrome ormai classica a molto cinema di tensione/terrore contemporaneo, quella che ci sembra essere in definitiva un progressivo scarico delle responsabilità: saggiamente, quando non sanno fare una cosa i superiori la delegano ai “sottoposti”.

Non si riesce a SCRIVERE la paura? Nessun problema, affidiamola alla regia. La regia non riesce a dar corpo alla paura (al cinquantottesimo minuto circa c’è uno dei bus più telefonati dell’intera storia del cinema), nessun problema, ci penserà la fotografia! E cosa pensate che passi per la mente al povero fotografo? Corre a consultare il manuale dei provetti direttori della fotografia e legge: “Per fare paura, mistero e tensione, desaturare i colori, accentuare i neri, eliminare i toni caldi, forzare sulla palette il grigio canna di fucile e il metallico al titanio”. E il nostro bravo fotografo così fa, chiedendo aiuto anche allo scenografo che non esita a trovare ambienti in disuso, scalette di metallo, ascensori tenebrosi e quant’altro ancora possa servire all’uopo.

Il resto? Il resto è un Michael Keaton che ci prova e a tratti ci riesce, amaro quanto basta ma fallimentare nel passare in tre secondi da scettico e profano a grande esperto e cultista degli EVP. Il resto è una Deborah Unger da urlo, come sempre, uno dei volti più alieni e affascinanti mai creati da Hollywood. Il resto è un finale confuso con tanto di entrata del settimo cavalleggeri alla deus ex machina che più non si può. Il resto è un interessante e completo spot pubblicitario su televisori a schermo piatto e moderni programmi per computer.

Francamente, un po’ pochino.