Sei ore alla mezzanotte del 31 ottobre, la Notte dei Morti, l’urlo di un uomo fece saltare in volo i corvi dal tetto della casa, spingendoli verso il tramonto ubriaco di rosso. Il bosco di Monte Vergine inghiottì come una spugna verde quella voce, quintessenza di furia cieca, impedendo al vento di trasportarla oltre i propri confini di legno, foglie e corteccia gravida di tempo.

Ancora una volta, quella trappola vivente aveva funzionato, le fronde erano complici, vecchi silenziatori di ciò che non si doveva ascoltare. Facevano quel lavoro da anni, tenendo fermi per la coda, con le loro sottili dita pitturate di clorofilla, suoni e grida che non potevano scappare via.

Tutti gli animali, seguendo lo scatto fulmineo e coordinato dei corvi, fuggirono dalla casa delle urla che, agghindata da lunghe collane d’edera, col profilo smarginato dall’evanescente tulle della nebbia, nessun occhio umano riusciva a scorgere.

Gli insetti non seguirono le altre creature terrorizzate, possedute dai vapori bollenti dell’istinto di sopravvivenza, ma restarono là dov’erano, continuando a volare e strisciare, seguendo la loro disciplinata e viscida routine, come se niente fosse.

Quelli non avevano mai paura di niente.

Hans lavorava di scalpello e spunzoni da calzolaio. Era in ritardo sulla tabella di marcia e cercava di affrettarsi. Mancavano poche ore alla mezzanotte, che sapeva riconoscere anche a occhi chiusi; quell’odore dolciastro che iniziava ad aleggiare tutto intorno, così caratteristico. Il miele della morte, spalmato ovunque come carta moschicida per il giorno ormai fottuto, morto, con le ali trasparenti ormai incollate l’una all’altra.

Si stava infuriando, la fretta gli aveva fatto commettere ancora un errore, un’imprecisione. Voleva fare le cose a regola d’arte, da vero perfezionista, e non tollerava che a volte le mani non obbedissero alla lettera a ciò che la mente intendeva creare.

Ma poi gli bastavano pochi ritocchi per trasformare l’errore in un preziosismo. Le maschere stavano venendo davvero bene, anche se le mosche continuavano a tormentarlo finendogli, a ogni respiro, nel naso e nella bocca.

Fremevano per ciò che sarebbe spettato loro, oppure stavano cercando di sabotare il suo lavoro? Quelle bastarde affollavano la cucina. Un muro volante. Eccitate come iene dalla carne messa a cuocere, e da quella essiccata e stoccata in cantina dentro le vasche di sale.

Nelle foreste della Steiermark, da dove proveniva, non ce n’erano così tante di quelle affamate cagne ronzanti, ma l’Austria era ben altra cosa rispetto a quel bosco vicino al Delta del Po.

Ma non erano le mosche a preoccupare Hans, il suo vero problema era il tempo. Se non avesse completato le maschere della fortuna entro mezzanotte, la sua casa e la sua stessa vita sarebbero naufragate nel disastro.

Le quattro teste che stava scarificando e intarsiando, sudando sette camicie, che provenivano da cadaveri, erano state mummificate tramite un’arte antica appresa nella sua vecchia Salisburgo. La macabra materia prima che lavorava era il bottino di rapimenti e profanazione di tombe; quei corpi rappresentavano il cibo e il circo dei suoi piaceri, e il nettare dei deliri di sua sorella Greta, amante incestuosa e cacciatrice di prede umane. Lui si occupava del trattamento delle carni e del sacerdozio dei riti propiziatori, Greta dell’approvigionamento umano.

Borbottando e fischiettando, mentre sul fuoco bollivano ossa, arti mozzati, rametti di betulla e teste d’aglio, Hans ritagliava occhi e bocche scolpendo nelle ossa e nella pelle dei crani nuovi contorni, arabeschi tribali, fulmini, geroglifici e frattali, gettando nel pentolone gli scarti, oppure masticandoli e suggendone il succo come fossero vecchie radici dai poteri afrodisiaci e psichedelici.

Si era occupato personalmente delle decapitazioni dei disgraziati di turno, destinati a ghignare come maschere per la Notte dei Morti: nidi per le mosche senza nient’altro sotto il collo.

Non aveva perso tempo, aveva affondato la lama appena Greta, sorella, moglie, regina e concubina, gli aveva consegnato quei corpi vivi da trattare. Non aveva mai avuto il coraggio di chiedere come facesse, quella strega, a irretire bambini e adulti, metterli fuori combattimento senza ucciderli per portarglieli pronti al sacrificio.

Quando la sua amazzone violentava le vittime prima del trattamento, lì sul pavimento della cucina, oppure in sella a un tronco abbattuto, davanti agli occhi compiacenti del bosco che gocciolava brina e umore dalle modanature dei suoi rigidi fusti, lui accorreva a decapitare la preda, se era un maschio, per aiutare la compagna a raggiungere l’apogeo dell’orgasmo, un salato, acido e denso omega di perdizione: gli spasmi conseguenti la recisione del midollo spinale facevano scodinzolare e vibrare le vittime dentro di lei.

Mentre i cadaveri fremevano, imprigionati dalla tagliola di carne di Greta, lei ringraziava il suo compagno con quello sguardo ferino, sbavando estasi, per poi riprendere a lavorarsi i tessuti morti, affondando le unghie nei pettorali o nei fianchi burrosi del giocattolo di turno, ancora caldo ma teso come pietra, grattando insaziabile, straziando e godendo.

La scena faceva impazzire Hans, facendogli stillare sulla lingua uno specialissimo kykeon, che gli colava in bocca, giù dalla testa, dalle crepe del guasto ipotalamo. Un nettare misterico nel quale avrebbe potuto immergersi in attesa dell’erezione, dell’illuminazione, dell’apparizione di uno psicotico Nirvana rosa e nero che gli spalancava le cosce, cigolando come un cancello di cartilagini.

Non c’erano dubbi, sapeva come premiare il fratello sposo, con quello scempio di carne umana e di sangue che gli spiattellava davanti agli avidi occhi, uno spettacolo ogni volta unico e delirante.

Ma dov’era, Greta, adesso?

Hans stava iniziando a preoccuparsi.

Le teste mummificate a bocca aperta avrebbero contenuto dei lumini a olio. Gli occhi venivano rimossi e le cavità orbitali raschiate a fondo, per fare spazio a una piccola fiammella. La volta cranica segata via per eliminare cervello e cervelletto, grattugiati, per alloggiare una fiaccola di grosso diametro tale da rendere traslucido lo spessore del teschio, finalmente pronto a irradiare di bagliore ceruleo il cuore della Notte dei Morti, ormai sempre più vicina.

Il lavoro di cesello, l’agitazione e il silenzio che si gonfiava sempre più facevano ribollire il testosterone all’incisore. Due delle quattro maschere (Terra, Aria, Fuoco, Acqua) erano di donne, là disposte sul tavolo a bocca spalancata, pronte a farsi belle con la festa delle mosche. Sì, stavano diventando bellissime, grazie ai morsi di quelle piccole bastarde.

Greta non si vedeva ancora, e Hans aveva bisogno di farsene una, Aria o Terra, altrimenti sarebbe esploso. Lo invitavano a nozze, quelle due puttane morte, fissandogli la patta. Se la sua compagna stava tardando così tanto, conoscendola bene era certo che se la stesse spassando con qualcuno più bello e pulito di lui, la troia. Proprio durante la Notte dei Morti, quella più importante.

Così, liberandosi di colpo dall’indecisione, tirò fuori dai calzoni il suo tubo di carne turgida, e poi fece strisciare Aria sul tavolo («Aria è la più bella.»), verso di lui, disponendola all’altezza giusta. La donna aveva ancora i denti bianchi e splendenti, ma la lingua, non ancora estirpata, al tatto era arida come pane raffermo. Hans ingrassò la bocca di strutto, e poi fece quel che voleva, mordendosi le labbra quando strusciava qualche dente scheggiato. Le mosche, entrate là dentro prima di lui, se ne fregarono del dolore e del piacere salato dell’uomo, e del suo primitivo grugnire e singhiozzare.

«Mi raccomando, ragazzi, state attenti.»

«Certo, papà. Non preoccuparti, faremo presto.»

«Marcello, sei ubriaco, Cristo santo… torna dentro, non farti vedere in quel modo», urlò la moglie dalla cucina.

Lui, un poliziotto divorato dalle tarme della depressione, e dal disincanto verso ogni cosa, era ubriaco davvero, e dondolava sulle gambe. Ma voleva molto bene al piccolo Giorgio, suo figlio, che lo teneva ancora agganciato a qualcosa, di quella vita meschina.

Il ragazzino trepidava dinanzi a lui sull’uscio di casa, insieme ai suoi amichetti, Vanda e Spaghetto, l’anoressica e il ciccione del quale nemmeno la madre usava più il nome di battesimo.

Marcello digrignò i denti in direzione della voce della moglie, alle sue spalle.

«Non rompere, e chiudi quella boccaccia», grugnì. E poi, senza farsi vedere, rifilò di soppiatto la pistola d’ordinanza al figlio, facendogli l’occhiolino. Era stato l’alcol ad averglielo suggerito all’orecchio. DAGLI LA PISTOLA. DAGLIELA.

Dopo aver di nuovo rivolto un’occhiata alle sue spalle, per controllare se la moglie li stesse spiando, si avvicinò al gruppetto, abbassò la schiena poggiando le mani sulle ginocchia e sussurrò: «Ragazzi, questo è un segreto tra noi. Giorgio, diventerai un grande poliziotto, molto meglio di tuo padre. Tienila ben nascosta e usala per proteggere i tuoi amici, se vi succede qualcosa. È la Notte dei Morti, e bisogna stare in guardia.»

«Oh, grazie, papà. Te lo prometto».

Vanda e Spaghetto, con le loro teste nascoste sotto buste da pane con grezzi fori e aperture per vedere e respirare, sgranarono gli occhi contornati col pennarello.

«Che figata!», mormorarono increduli.

Già, quella era la famosa pistola della quale l’amico gli aveva narrato iliadi e odissee.

«Quindi, possiamo stare fuori fino all’alba? Faremo un bel carico di dolci…», chiese Giorgio.

I due compagni gli si strinsero ai fianchi in attesa di istruzioni. Avevano tutti attorno ai tredici anni.

«State uniti, e fate quello che volete. Ma non andate verso il bosco, non attraversate la statale», rispose serio il padre.

«Marcello! Non dire a quei ragazzi di andare nel bosco. Ma sei impazzito?».

Ancora lei, più acida di prima. Incazzata come sempre.

«Stai diventando sorda? Ti manca solo quello… ho appena detto l’esatto contrario, tritapalle. Devono divertirsi, è la loro notte, lasciali in pace», gridò di rimando, mentre Giorgio soppesava la pistola nelle mani. «Ehi, non farti vedere, mettila via, o tua madre ci ammazza, stavolta», raccomandò poi al piccolo, sbiascicando le parole e spingendogli l’arma nella tasca del cappotto. «Filate via adesso, prima che quella vi tiri dentro a guardare la tv e a dire le preghiere.»

«A più tardi, papà.»

«A dopo, signor Marcello.»

«Buona caccia… io vado a dissetarmi, ragazzi. È una serata troppo calda, un cavolo di ottobre».

I tre amici si allontanarono in fretta coi loro sacchetti per i dolci da riempire. L’uomo chiuse la porta bestemmiando e imprecando verso la moglie. Sarebbero volati altri schiaffoni, quella sera.

Giorgio si sentiva al settimo cielo, sarebbe stata una serata davvero magica. Suo padre lo aveva lasciato uscire con la pistola. Con la sua pistola. Il cappotto gli scendeva da un lato, per il peso di quel ferro in tasca. Il caricatore era pieno, e il ragazzino per un attimo temette che il suo cuore potesse far esplodere i proiettili, per quanto batteva di gioia.

«Grazie, signora Carla», disse Spaghetto, raccogliendo nel sacco una crostata ancora calda.

«State attenti alla statale, ragazzi, e buona notte.»

«Grazie, signora. Siamo al sicuro, stasera.»

«Ora andiamo da Cristoforo. Ci darà le salsicce.»

«E poi da Nicola e Sofia, quelli hanno sempre un sacco di caramelle.»

«Giuseppe ha il panettone.»

«Buono, quello, ma dopo dove andiamo? Le case sono finite.»

«Dopo, facciamo un pezzo di statale.»

«Ma non si può…»

«Ragazzi, sono diventato un poliziotto, ve lo siete dimenticato?», rispose Giorgio con voce seria, trattenendo il respiro e tirando una pacca alla tasca del cappotto.

Non partì nessun colpo, per fortuna.

A Monte Vergine il dolcetto o scherzetto finiva sempre troppo presto, il paesino non contava più di duecento anime, e quelli che lavoravano nei campi, la maggior parte, si ritiravano a letto alle sette e non si sarebbero alzati nemmeno con le cannonate. Altro che salsicce e panettoni. Si rischiava di prendere qualche secchiata d’acqua, o di altri liquidi meno nobili, se andava bene.

Ma, superando la statale e tagliando per il bosco, in mezz’ora si poteva raggiungere Basometto, dove c’era anche un cinema striminzito, l’Alcazar, con le poltrone di legno. In bicicletta non si sarebbe risparmiato molto tempo, essendo necessario fare il giro del bosco e, dalla strada principale, prendere uno dei budelli di terra battuta che solcavano la campagna.

Ma anche mettendo insieme i due paesini, non era certo come stare a Mesola, a trenta chilometri da Monte Vergine, dove lavorava Marcello, nel comando in miniatura della polizia che si faceva vanto di possedere ben due computer connessi a Internet; là c’era molta più gente, e si sarebbero potuti raccogliere facilmente parecchi sacchi di roba buona.

Quelli di Mesola erano ragazzi fortunati.

Hans era soddisfatto, ma si sentiva stanco, e vecchio. Sapeva di esserlo, vecchio. Ma doveva occuparsi del rito della Notte dei Morti. Sarebbe stato così fino all’ultimo giorno della sua sporca vita. Sapeva anche quello.

La casa delle urla di Hans e Greta, una baita di legno fagocitata da piante rampicanti, tempio malandato, dalle assi storte, di una affamata depravazione tribale, sciamanica, una sghemba versione di antichi riti mesoamericani da profonda foresta, si illuminava al crepuscolo del 31 ottobre grazie a quattro lanterne umane scarificate con segni e grafie di guerra.

Quattro maschere della morte e del regno terreno che dovevano tenere lontani, da ogni punto cardinale, gli angeli e le forze del bene, preservando così il mondo sadico, psicotico e incestuoso dei fratelli, lasciando correre lineare il loro destino sui binari convergenti di imbastardite teosofie di libagioni cadaveriche e stupri decapitanti. Abomini protetti da spessi lembi d’oscurità, delle fronde complici di radici succhia-sangue e della soda nebbia delle loro anime, perdute decenni prima tra le foreste austriache, che faceva sparire, come d’incanto, la casa delle urla.

In fin dei conti si trattava di sopravvivenza, pensava Hans, rimettendosi nei pantaloni il tubo di carne ormai sgonfio, gocciolante e impanato di strutto. Far sopravvivere il proprio io ancestrale, per chi come loro due aveva deciso di cavalcare di nuovo gli stalloni delle pulsioni basiche, primordiali, mentre il mondo aveva ormai dimenticato le sue vere origini, quelle più fulgide e pure.

Ancora qualche rifinitura, qualche incisione di precisione su quei meritevoli crani e poi avrebbe inserito i lumini accesi. Disegnò cirri e triangoli, poligoni, stelle, croci, asterischi, svastiche, 666, mezzelune, occhi egizi. I contorni di ogni grafia si incastravano a nido d’ape con le altre, definendo una babele crittografica dove gli angeli assalitori si perdevano ogni volta in una vana decodifica. Aveva sempre funzionato. La punta metallica si era impossessata di lui, e scavava sortilegi come se fosse guidato da un eretico Mozart che scriveva musica, e divinazioni, su ossa e carne.

Gli intarsi si moltiplicarono fino a trasformare ogni testa in un mosaico tridimensionale urlante. Nessun angelo avrebbe osato sfidare a lungo quelle maschere. Non avrebbe riconosciuto lineamenti umani, neppure un filo d’anima della tessitura divina. Sarebbe stato disarmato da quelle tragiche incisioni. Qualunque grazia fossero stati in grado di rovesciare sulla casa interi stormi di cherubini, serafini e arcangeli, coi loro grossi idranti, gli sarebbe rimbalzata in faccia, ribaltandogli le aureole sulla testa; non era ancora tempo per la bonifica della casa delle urla, non con quelle maschere di guardia. Non finché Hans e Greta avessero continuato ad accoppiarsi tra loro, e con i morti, al ritmo di teste rotolanti, nacchere di spine dorsali spezzati e scalpelli surriscaldati, facendosi fune di acciaio, connessione, tra quella terra maledetta e il forno di Lucifero, là sotto.

Il tempo stringeva. La notte era ormai calata, il bosco di Monte Vergine rallentava il respiro, ansimando con la terra in bocca, e gli alberi sembravano mozzati, là in alto, con le cime ficcate dritte nell’utero delle tenebre. Foglie di seta nera e fruscii a quattro zampe, ratatouille di teschi volanti, stampati sulla lugubre livrea di falene in circolo, il metronomo del silenzio, tic-tac, e poi una rullata di tamburo: un cuore grosso pulsante tra i cespugli, quello di un cinghiale, forse, o di un guardone impigliato nelle ombre, col cannocchiale al collo e una bottiglia di rum mezza vuota tra le gambe.

Hans amava sentire la punta dello scalpello solcare il cuoio della pelle e le ossa. Una sinfonia martellata in do minore. Un requiem pestato, monotono come la voce d’addome di una cicala. Le teste lo lasciavano fare. Quelle godevano con funerario masochismo e lui, assecondando le curve delle decorazioni, sentiva risalirgli lungo il braccio, dall’articolazione del gomito fino alla giugulare, le vibrazioni animate dalla punta metallica. Non poteva che godersele fino in fondo, quelle scosse elettriche che gli stimolavano le ghiandole salivari e la prostata.

L’incisore finì di raschiare le cavità orbitali con lo stesso cucchiaio con cui lui e Greta mangiavano i semplici frutti della terra e spalavano i propri escrementi deposti negli angoli delle stanze della casa delle urla.

Accese i lumini. Li inserì con cura nelle bocche e negli alvei orbitali delle teste morte, e posizionò le torce sopra le scatole craniche lucidate. Poi, stanco e sudato, si asciugò la fronte e il viso con lo scalpo della bionda Terra. Tanto non era bella come Aria, pensò, percorrendo con gli indici, per tutta la loro lunghezza, le rughe della fronte, raccogliendo sui polpastrelli le madide goccioline dei pensieri che non osava pensare.

Uscì all’esterno con le prime due maschere accese, le posizionò su due ciotole ai lati della ringhiera del portico, poi rientrò in casa trafelato per ricomparire sul retro con l’altra macabra coppia sotto le braccia, che sistemò su due pietre, una per ciascun angolo.

I guardiani splendevano tutti insieme, adesso. Gli avrebbero assicurato un altro anno di cibo e lussuria.

Ma Greta?

Dov’era finita, quella strega?

«Signora, può ripetere, per favore?»

«Spaghetto, ma non senti che parla tedesco?», spiegò Giorgio.

«No, è francese», tentò Vanda.

«Si è persa. Non capisce la nostra lingua, non sa leggere i cartelli», fece Spaghetto voltandosi verso gli amici, alzando le spalle. «Continua a ripetere Ballare, Ballare; si vede che c’è un casale da queste parti dove avranno organizzato una festa di Halloween.»

«Ja! Ballare! Divertimmento!», esclamò di nuovo la donna, facendosi sentire dagli altri ragazzi.

«Andiamocene via. Ci hanno detto di stare lontani dalla statale», disse preoccupata Vanda.

«Stai tranquilla, ho la pistola», replicò Giorgio controllando la tasca del cappotto.

«Ehi, abbassa la voce», mormorò lei, mentre raggiungevano Spaghetto ancora appoggiato al finestrino del Fiorino della sconosciuta, fermo su un lato della carreggiata. Non passava nessuno, la strada era deserta. La donna a bordo della vettura fissava in modo strano gli occhi dei ragazzini, ritagliati nelle buste che portavano in testa. Loro restarono imbambolati di fronte a quello sguardo sardonico, gentile e divorante nello stesso tempo. Non avevano mai visto niente del genere.

Poi quella, dopo qualche secondo di silenzio, riprese a parlare e sorridere, gesticolando con le mani. Cosa diavolo stava dicendo? Si capivano solo tre parole: ballare, divertimento e andare.

Alla fine, stufa, la donna scese dal furgoncino e smascherò i tre con un gesto fulmineo, sfilandogli le buste dalla testa, lasciandoli a bocca aperta a osservare il suo strano abbigliamento: indossava solo una vestaglia bianca, ed era scalza. Non sembrava vestita per andare a una festa, ma era la notte di Halloween… forse tutti erano conciati in quel modo, doveva essere qualcosa di fico.

Solo ai grandi spettavano le cose fiche.

La donna accartocciò le tre maschere e le gettò nel fosso a fianco, borbottando «No serve!», per poi riprendere la sua cantilena. «Andiamo, ballare. Divertimmento. Mangiare tutto», mostrando ai ragazzi un sorriso a trentadue denti, restando lì, ferma, ad aspettare una risposta.

«Perché non ci andiamo? Alla festa, dico. Sarebbe forte», sussurrò eccitato Giorgio avvicinandosi ai compagni, rimediando subito uno sguardo sdegnato da Vanda.

«Ma sei fuori? Non sappiamo nemmeno dove vuole andare, questa matta», disse lei incrociando le braccia e dando la schiena al piccolo poliziotto.

Spaghetto invece, dopo aver sentito le parole mangiare tutto, si mise a saltellare e annuire con la testa. «Beh, che aspettiamo allora?».

Il grassone aveva fame, come sempre, e quel poco che avevano raccolto, fino a quel momento, non era niente in confronto a quello che avrebbero potuto trovare a quella festa.

Era davvero una festa? Per forza, quella continuava a dire ballare, divertimento e poi, per essere ancora più convincente, aveva preso a esibirsi in qualche passo di danza, abbracciando un partner invisibile. Si muoveva con la grazia di un ronzino, roba da ridere, ma non era quello il punto.

Una volta che comprese di aver incuriosito i ragazzi al punto giusto, la donna aprì lo sportello posteriore per farli salire. Stava offrendo loro un passaggio, alla festa. Divertimmento.

Giorgio fu il primo a salire a bordo.

«Prafo, hai palle», esclamò la sconosciuta con la sua voce roca, schiumante di promesse balorde. Vanda invece protestò, irrigidendosi. Non ne voleva sapere.

«Sali, non preoccuparti», insistette il piccolo poliziotto, facendole l’occhiolino. Con quello che aveva in tasca si sentiva pronto a qualsiasi cosa. Forse succede così, quando si diventa grandi.

Spaghetto invece non si fece pregare, saltò nel furgoncino facendo scricchiolare le sospensioni, e infine anche la ragazzina si convinse. Non è che avesse tanta scelta, tornare a casa a piedi, da sola, con quel buio, non sarebbe stato il massimo. Il bosco, che contornava la scena coi suoi margini neri, le aveva sempre fatto paura. Si raccontavano brutte storie, su quel posto. Ricordava una vecchia filastrocca, che le cantava la nonna: Monte Vergine ha vuoto il pancino. Sei tu il suo pasticcino? Ascolta l’uccellino. Mai nel bosco, mai vicino.

I ragazzi si strinsero l’un l’altro nel sedile posteriore del furgoncino, rabbrividendo per l’umidità che stagnava nell’abitacolo, mentre la donna partiva a tutto gas lanciandosi nel buio a fari spenti. Ma che cavolo…

Vanda iniziò ad affondare le unghie nella propria gonna, temendo il peggio, Spaghetto si era di colpo fatto rosso in faccia, mentre Giorgio teneva d’occhio la nuca della donna.

Tutto era diventato troppo strano, e i conti non tornavano più. Perché correre in quel modo, e coi fanali spenti?

 Se fa qualche scherzo, ci penso io. Roba da poliziotti, pensava il ragazzo.

La sconosciuta sembrava sapere perfettamente dove andare, come se conoscesse ogni filo d’erba di quella zona, perfino al buio. Adesso, con fare serio, come una sacerdotessa in piena estasi pagana, sussurrava qualcosa di incomprensibile, e non stava rivolgendosi a loro; non parlava più di danze e divertimenti, e il suo sorriso era mutato in un ghigno affamato. Sembrava pregare serrando i denti, mentre controllava i ragazzi dallo specchietto.

Hans, ripeteva, roteando gli occhi. Hans. Quegli occhi spaventosi.

Giorgio manteneva la calma, una festa da grandi sarebbe stata fica, ma se le cose fossero andate in modo diverso, se quella avesse voluto far loro del male, lui avrebbe potuto usare la pistola, sistemare la faccenda e poi, finito tutto, rimirare la sorridente faccia del padre scolarsi una birra in suo onore, come faceva con i suoi squinternati amici.

Dobbiamo festeggiare. Me l’hai fatta, compare. Sei un tipo tosto!

Ma il furgoncino stava andando troppo velocemente. Per un attimo pensò di sparare un colpo al parabrezza, vicino all’orecchio di quella strega, per spaventarla e costringerla a fermarsi. Già, proprio così: i poliziotti non uccidono le persone, se non sono costretti.

Ma quella continuava a correre sempre più, e sulle curve il ragazzo si sentiva schiacciare sulla portiera. Aprendo il fuoco in quella situazione, avrebbe combinato un guaio e… deluso il padre. Stupido, dovevi pensarci!

«Giorgio… la pistola!», gli sussurrò in un orecchio Vanda, quando la vettura sterzò per lasciare la statale e imboccare un sentiero. La donna finalmente accese i fari, e continuò a spingere l’acceleratore correndo in mezzo agli alberi. Rideva, e sussurrava ancora: Hans, Hans.

Se non voleva ucciderli, doveva essere comunque una pazza. Li avrebbe fatti ammazzare, da un momento all’altro. Una strega, la notte di Halloween.

Giorgio allora decise di darsi da fare, era arrivato il momento di diventare un vero poliziotto. Usala per proteggere i tuoi amici, se vi succede qualcosa. Certo, papà.

Ripassò con lucida precisione le operazioni da fare, cantilenando nella mente le istruzioni del padre. Era ubriaco anche quella volta, quando aveva deciso di spiegargli tutto. Non aveva mai parlato così tanto con lui come quel giorno. Estate, un anno prima, con le zanzare che si facevano sotto.

Imparala come una canzone, così non dimenticherai più.

La Sicura dov’è? Orecchio in su, orecchio in giù. Click, Click.

Non c’era tempo da perdere, con una mano il ragazzo si aggrappò al telaio dell’auto, con l’altra sollevò la pistola e la piazzò accanto all’orecchio della donna, puntando al parabrezza.

Via la sicura. Orecchio in su. Click.

Prese la mira, cercando di tenere ferma la canna che svirgolava a destra e sinistra, si morse le labbra contando nella testa fino a tre, per prepararsi a premere il grilletto, ma una buca lo sorprese e gli partì un colpo. La donna urlò come se fosse stata colpita, e perse il controllo del mezzo che, sollevandosi su un fianco, sembrò spiccare un volo di traverso, per poi tornare con le quattro ruote a terra, scuotersi e schizzare sul suolo, saltare ancora per qualche metro e schiantarsi in un fossato con un ultimo ruggito del motore in folle.

Hans aspettava Greta con sempre maggiore apprensione e rabbia, ma anche prendendo in prestito le orecchie del bosco non riusciva a percepire la presenza, là nei dintorni, nel loro territorio, della sua regina, della puttana che stava rovinando tutto, proprio quella notte. La Notte dei Morti.

Le maschere lavoravano in silenzio, declinando il loro tributo oscuro, lampeggiando, a momenti, come comete immobili. Gli animali tacevano, perfino le mosche sembravano diventate di gesso, là dentro ai loro quattro sepolcri di carne. Monte Vergine Mood.

L’unica cosa che si percepiva era il respiro dell’incisore, costante, che soffiava nel buio, forse per spazzarlo via, stavolta. Aveva bisogno di vederla, subito. Dove cazzo sei?

Poi, quando il rosario del tempo arrivò sui grani giusti, Hans udì le voci dei ragazzini, e sollevò la testa.

«Muoviti, Vanda. Che ti dicevo? Non ci siamo mica persi, vedi…? Laggiù c’è una casa», la confortò il piccolo poliziotto, facendosi avanti e spostando i rami per mostrarle le luci in lontananza.

«Mi fa paura quel posto, qui in mezzo al nulla. Torniamo verso la strada. Non può essere lontana, passerà qualcuno e…»

«E ci perderemo, è buio pesto e fa freddo. Guarda, hanno perfino le zucche di Halloween là davanti… Ci faranno entrare e telefonare a casa. Dobbiamo chiamare l’ambulanza per Spaghetto, sembrava messo male; aveva la faccia blu dopo il botto, hai visto?»

«Già, ma quella matta?»

«Se non l’ho presa in testa, se la sarà spaccata… ha sfondato il parabrezza, quindi non credo che sia… comunque, le sta bene. Se non è morta, ci penserà mio padre, quando verrà a saperlo, vedrai… lui ha messo dentro famosi assassini, quella è niente, al confronto… o vuoi tornare indietro a controllare? Se ci tieni tanto…»

«Non fare lo stupido. Vai avanti tu, però».

I due si affrettarono facendosi strada tra i cespugli, scivolando col sedere su una bassa scarpata per poi seguire un solco di erba schiacciata dalle ruote di un’auto che portava fino a quella casa. Sempre più vicino alle luci. Quattro luci.

«Ehi! Giorgio!», sussurrò Vanda fermandosi di colpo tra gli sterpi alti fino alle ginocchia.

«Che c’è? Andiamo, forza, ci siamo quasi.»

«Oddio, ma hai visto?»

«Cosa, dove? Quella donna?»

«No, guarda là, quelle non… non sono… zucche.»

«Ma che stai dicendo?»

Avvicinandosi alla casa delle urla, il lezzo della decomposizione degli scarti dei corpi trattati da Hans, che ricoprivano il pavimento della cucina, strinse la gola dei ragazzi, che si fermarono a pochi metri, stropicciandosi gli occhi, non potendo credere a ciò che stavano vedendo.

Acqua, Fuoco, Terra, Aria. Ribrezzo.

Le quattro teste mozzate sembravano sorridere, Aria (la più bella delle due damigelle morte) tirò fuori la lingua, muovendola lentamente, come una lumaca. Vuole dire qualcosa? Ma no, erano le maledette mosche, là dentro, a sollevare quel pezzo inerte di carne, rancido e bluastro. I morti non possono parlare.

Vanda lanciò un grido portandosi le mani sulla faccia, quella bastarde alate, mai sazie, erano uscite dalle orbite di Terra per ronzare attorno ai capelli rossi della ragazzina, dandosi da fare per entrarle in bocca, nel naso e nelle orecchie. Una testa viva e profumata, una prelibatezza.

Giorgio, con le gambe che gli tremavano come fiamme di candele, puntò la canna della pistola verso il bosco che, minaccioso, stava allungando la propria macchia nera sulle sue scarpe da tennis.

Come fa a muoversi, un cavolo di bosco?

Fece fuoco contro quel nulla tutto nero, una, due volte, ma l’ombra non si ritirò, iniziando invece a rivestirlo sempre più di una pellicola mortifera. Quell’ombra aveva la forma di un uomo, senza capelli, con le braccia allungate e una mano stretta sulla sagoma di un coltellaccio, che gli scherzi delle intermittenti luci delle lanterne umane ingigantivano sempre più, fino a materializzare una lama lunga quanto il corpo stesso del ragazzo, che prese coraggio e si voltò di scatto.

Hans, spogliato dalla sua ombra deformante, si mostrò coi suoi incisivi d’oro in bella evidenza, la canottiera schizzata di sangue e l’alito di chi ha appena sprofondato il grugno nella carcassa di qualche bestia puzzolente. Sorrise a Giorgio, proprio come quella matta in vestaglia. Le somigliava.

Hans, Hans. Era ancora lei, la strega, con quella voce cantilenante, ma dov’era nascosta?

C’era anche lei da qualche parte, con la sua fetida scia di sudore e sangue, e la testa mezza spaccata; il ragazzo poteva sentire a pochi metri quella voce roca che non avrebbe mai potuto dimenticare. Anche se adesso suonava un poco diversa. Sembrava masticare del cristallo, nelle pause. Cristo, il parabrezza del furgoncino

Giorgio, quasi in trappola, non aveva altra scelta che sparare di nuovo, una bella raffica stavolta, a casaccio, senza nemmeno prendere la mira, per dissuadere i due dall’avvicinarsi ancora e potersela dare a gambe. Ma stavolta la pistola fece cilecca; il grilletto si bloccò di colpo.

Orecchio in giù, oppure in su? Devi sempre controllare, lo aveva avvertito il padre. Se si blocca, devi alzare il cane, e allora sentirai come canta ancora, questa bellezza.

L’uomo si fece una bella risata, e avanzò ancora verso il ragazzo, piegando la testa a sinistra e destra, sussurrando Click-click. Stava sfottendo il piccolo poliziotto, rimasto a bocca aperta. Quando fu abbastanza vicino da respirargli sulla faccia, si portò alle labbra un cammeo di corallo che gli pendeva dalla catenina, il capo di donna anziana in rilievo, forse la madre, lo baciò teneramente, e poi strinse il collo del ragazzo con le grosse mani, spegnendogli rapidamente il cervello.

Giorgio si risvegliò legato a un tronco, a faccia in giù, nudo come un verme.

Da quella scomoda posizione, forzando i muscoli del collo riuscì a scorgere la testa di Vanda, più in là, a fianco di quelle già mummificate di Terra e Aria, luccicare nel buio fresca di taglio, con una pannocchia ficcata tra i denti, mentre il suo scalpo rosso, ancora annodato in treccine, decorava la testa di Greta che, continuando a masticare vetri e sudare sangue dalla fronte squarciata, si avvicinava eccitata a quel tenero corpo mai toccato da una donna.

Divertimmento.